Si è accasciata in uno dei bagni del reparto maternità della Mangiagalli ed è morta in pochi minuti. Sua figlia, che oggi ha quattro anni, è nata quello stesso giorno, nel gennaio 2020, con un parto cesareo d'urgenza. È stata in pericolo di vita ed è stata ricoverata un mese in terapia intensiva, ma poi è andata meglio. Oggi le immagini di lei sui social la ritraggono serena. Al mare, in montagna, vestita da sirena o col cappello di lana, in compagnia del papà.
Tre medici di cardiologia del Policlinico sono ora a processo per quello che, secondo l'accusa, è stato un omicidio colposo dovuto, peraltro, a un comportamento «attendista» dei medici. La pm, che ha chiesto una condanna a 6 mesi di reclusione, sostiene che siano responsabili della morte della paziente di 47 anni, incinta all'ottavo mese. I consulenti della procura e quelli di parte civile, con l'avvocata Roberta Ligotti che assiste i familiari, hanno concluso che se i medici avessero effettuato approfondimenti diagnostici «di secondo livello», avrebbero potuto iniziare una terapia, cioè un intervento e un cesareo, che le avrebbe salvato la vita «al 70 per cento».
La donna aveva fatto un primo accesso alla Macedonio Melloni a fine dicembre per un sospetto aborto. Giorni dopo, era ritornata nello stesso ospedale perché non si sentiva bene: aveva dolore, gonfiore, e un improvviso aumento di peso. Tutti sintomi che, insieme a una patologia di cui era affetta, molto frequente in gravidanza, il diabete gestazionale, avrebbero dovuto indirizzare i medici verso la diagnosi corretta. E infatti il medico internista che l'aveva visitata alla Melloni all'inizio di gennaio l'aveva dimessa e mandata al Policlinico con una cartella clinica e una lettera di dimissioni in cui segnalava un «problema significativo all'aorta». Arrivata in terapia intensiva alla De Marchi, fu sottoposta a un elettrocardiogramma che diede però esito negativo. Fu quindi trasferita alla Mangiagalli, sempre in via della Commenda, per il cesareo.
Ritornata nella sua camera dopo un'ecografia, si sentì male nella stanza da bagno. La bimba nacque in quella stessa camera.
Stando all'inchiesta, nessuno dei cardiologi che si susseguirono nelle visite in quelle ore a partire dal ricovero le prescrisse degli esami che avrebbero potuto condurre alla diagnosi: ecocardiogramma trans toracico e trans esofageo, una tac o gli esami del sangue sui livelli di troponina. La donna morì infine per una dissecazione aortica, una lesione dello strato più interno dell'aorta. La tesi della difesa, con l'avvocato Paolo Vinci, è che la paziente non si sarebbe potuta salvare in nessun caso.
Quella dell'accusa è invece che la lesione si sia formata diverse ore prima e che se i medici avessero fatto gli accertamenti corretti, la paziente sarebbe ancora viva. «Siamo stati insieme per vent'anni, quella notte ho vagato a lungo senza sapere che fare», le parole del marito che ha poi presentato denuncia. La sentenza a luglio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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