Il "paziente uno" dalle maratone alla rianimazione. "Ma voglio soltanto la mia vita normale"

Il corpo di Maestri Mattia è stato il corpo di tutti noi, per diversi giorni. Certo, c'era lui a combattere nella rianimazione dell'ospedale di Codogno (Codogno dove?), mica noi.

Il "paziente uno" dalle maratone alla rianimazione. "Ma voglio soltanto la mia vita normale"

I l corpo di Maestri Mattia è stato il corpo di tutti noi, per diversi giorni. Certo, c'era lui a combattere nella rianimazione dell'ospedale di Codogno (Codogno dove?), mica noi. Però alla fine è sul suo corpo giovane e da atleta di provincia (pure se leggermente in sovrappeso) che sono state tatuate le prime parole del romanzone del Covid. Fu lui il paziente uno italiano, quello che prima non esisteva per protocollo, e alla fine europeo. Non certo il primo ad ammalarsi, ma il primo con il patentino del contagiato (tutti gli altri sono stati un oscuro prequel passato in cavalleria) da quel virus che fino a quel giorno era una cosa che non ci riguardava e da quel giorno ci ha riguardato eccome.

All'inizio non aveva un nome, oltre al corpo. Mattia era M.M. Ma aveva un'età, 38 anni, e di lui si raccontavano cose da supereroe, un supereoe intubato: era un runner, un giocatore di calcio, un manager dell'Unilever. Ma anche colui che aveva contagiato tutta Codogno, tutta la Lombardia, tutta l'Italia, tutta Europa, accidenti. Di M.M. e del suo corpo si raccontarono tante scempiaggini in quei giorni, mentre lui non poteva rispondere: che avesse fatto due maratone in pochi giorni, che fosse andato a cena con un cinese, che avesse rifiutato il ricovero durante una prima visita al pronto soccorso, quando i suoi polmoni stavano già cedendo. Era una vittima, lo fecero passare come un incosciente. O come un untore, che era anche più facile.

Mattia oggi non parla. Questa avrebbe dovuta essere un'intervista ma non lo sarà. Lui vorrebbe solo scomparire, tornare quello di prima: una mezza maratona alla domenica, una capricciosa con gli amici. Ma la vita non è più quello che era: si è fatto due settimane in terapia intensiva, più morto che vivo e racconterà di avvertire una calma che assomigliava alla sala d'aspetto della fine; il padre è morto per lo stesso virus, in una tragica staffetta; si è perso le ultime settimane della gravidanza della moglie Valentina, a sua volta contagiata ma con sintomi assai più lievi; e soprattutto, quando è tornato a vivere, si è dovuto confrontare con una popolarità ingombrante, da redivivo, qualche volta vagamente astiosa, come se lui quella malastoria se la fosse andata a cercare, alla fine. «L'etichetta Paziente 1 non mi è mai pesata, anzi ci ho subito scherzato io per primo - raccontò qualche mese dopo a un settimanale -. Invece mi è pesata la popolarità che ne è conseguita, le richieste di interviste o di ospitate televisive».

A Mattia resterà sempre la tessera numero uno di un club di cui, come Groucho Marx, non avrebbe voluto far parte. Con i suoi capelli brizzolati e la sua figura imponente è stato il corpaccione fin troppo giovane di un virus che nei mesi successivi ucciderà soprattutto gli anziani. Lui ha ancora i segni del tubo sul collo, si è preso un caffè con il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana, è diventato alla fine papà di Giulia, si è fatto fotografare con figlia e moglie nella vetrina dell'erboristeria di quest'ultima per partecipare a un concorso tra negozi (perso, mica si è sempre numeri uno), ha ripreso a correre mettendo di nuovo alla frusta quei polmoni che a un certo punto sembravano dovessero abbandonarlo.

Nella foto di gruppo del Gruppo Podistico Codogno 82 è l'ottavo da sinistra nella fila in alto, con la maglietta bianca e uno sponsor di provincia, Povero Mattia, più forte del virus ma meno, molto meno, dell'essere sopravvissuto a se stesso.

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