Con il discorso di ieri Berlusconi ha sancito il passaggio dal «partito a vocazione maggioritaria» al partito a «cultura maggioritaria». Il primo quindicennio è davvero finito. Non c’è più la precarietà degli albori. La «lucida follia» che ha sospinto in questi anni il berlusconismo attraverso mille insidie, gli insuccessi, le immediate rivincite lascia il passo al progetto di una formazione politica che «resterà dopo di noi». Si chiude la transizione italiana perché uno dei soggetti in campo acquista sicurezza di sé e lancia la sfida agli altri attori della politica.
Il nuovo obiettivo che Berlusconi ha dato alla sua gente è di diventare la forza egemone della politica italiana e il primo partito europeo. Neppure la vecchia Dc aveva osato tanto. Da ieri la Lega sa di avere un alleato di governo che potrebbe dirle dei «no» perché ha la presunzione di parlare a nome della maggioranza degli italiani. La caduta del vecchio anticomunismo nasce da questa consapevolezza. L’identità del nuovo partito non nasce «a contrario», non è prodotto di una strategia difensiva volta a recuperare spazi nella politica italiana nel timore che siano altri a dettare le regole. Il nuovo partito non ha complessi di inferiorità. Per la prima volta in questo quindicennio Berlusconi non si sente a capo di una maggioranza virtuale del Paese, ma è convinto di guidare una maggioranza reale.
Il Pd farà bene a riflettere su questa mutazione del partito che ci governa. Per un quindicennio la politica italiana giocava le proprie carte sull’incombere dell’errore. Ciascuno dei due schieramenti sperava nell’autogol più che nelle proprie virtù. Questa partita è finita con l’ultimo autogol del Pd che ha macinato tutti i suoi leader, ha maciullato i suoi governi e oggi combatte la battaglia per la propria esistenza. Colpisce in questi tre giorni l’afonia della classe dirigente dei «democrats». La polemica è stanca e, tutto sommato, antica di fronte a un fenomeno del tutto nuovo della politica italiana. Franceschini ha tentato l’assurda sfida della non candidabilità del premier alle prossime Europee. Invece di combattere con le spade, si usano gli stuzzicadenti. Mentre da una parte nasce il partito a «cultura maggioritaria», dall’altra si stabilizza una drammatica «cultura minoritaria».
Ha fatto eccezione il solito Massimo D’Alema, che forse è l’unico ad aver compreso il senso della sfida. Ma la partita che è iniziata richiede ben più che una disponibilità al «dialogo». Berlusconi ha proposto alcune modernizzazioni dell’Italia che chiedono all’altra parte un atteggiamento attivo. Si può proseguire come nel passato contando sul logoramento del vincitore, sulle divisioni nel campo avverso, sulla caratterialità della Lega. Si può, in sostanza, dormicchiare sulla riva del fiume in attesa che l’altro campo commetta l’errore capitale. Ma si rischia di aspettare per un intero ciclo politico condannandosi alla irrilevanza protestataria. Oppure si può accettare la sfida e tentare la contaminazione con l’avversario immaginando insieme le riforme che possono rendere più forte il sistema Italia.
Propongo a D’Alema di fare come Ehud Barak. Il leder laburista israeliano, di fronte a un passaggio d’epoca del suo Paese, non ha esitato a spaccare il suo partito pur di non restare fuori dai processi storici. A D’Alema chiedo molto meno. Non è in discussione, ovviamente, la sua partecipazione a un governo diretto dall’altra parte. Né lo invito all’abbandono del Pd. Non è questa la contaminazione virtuosa a cui penso. Forse, però, D’Alema è in grado di dire alla propria parte che è arrivato il tempo della collaborazione con le riforme, che la stagione dell’eccezionalismo italiano è finita, che il giustizialismo è nemico di una sinistra moderna e che una nuova sinistra oggi può nascere se collabora a costruire una nuova Italia.
Molta gente a sinistra ha capito che siamo entrati in un’altra epoca del berlusconismo.
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