La storia della filosofia non riguarda l'università ma il carcere. La cosa può suonare strana ma l'origine stessa del pensiero come libertà e critica non è proprio la galera? Eh sì, Socrate, che è il filosofo per eccellenza, creò la filosofia come pensiero della vita libera rifiutandosi di dare l'anima al potere. Platone fu ridotto in schiavitù dal tiranno e Aristotele lasciò Atene per disse «evitare che pecchiate una seconda volta contro la filosofia». Questo in Grecia. In Italia? Sappiamo come e perché morì Giordano Bruno «academico di nulla academia» - mentre Tommaso Campanella passò più tempo dentro che fuori e Galileo Galilei abiurò per aver salva una vita che passò in gattabuia. Ma ecco il punto che vale la pena sottolineare nessuno di loro sapeva che farsene di carte e titoli di studio. Il padre della scienza sperimentale non era laureato: studiò a Pisa ma non riuscì ad ottenere una borsa di studio e solo grazie al padrino di battesimo del fratello Michelangelo riuscì a seguire i corsi. Poi lasciò Pisa per Firenze e quindi il padre lo rispedì a Pisa per fargli studiare medicina e invece lui seguì lezioni di matematica e di fisica e ne ricavò, autonomamente e contro gli studi accademici, quella che noi oggi chiamiamo scienza moderna. Il tutto senza laurea. Ma davvero c'è da meravigliarsi? Se la scienza per venire al mondo avesse dovuto attendere l'università non avrebbe fatto mai giorno, come diceva più o meno il poeta Rocco Scotellaro che, naturalmente, non era laureato. Tralasciamo Giacomino Leopardi le cui «sudate carte» e lo «studio matto e disperatissimo» non hanno nulla a che vedere con l'accademia e soffermiamoci di passata su Eugenio Montale. Forse, il maggior poeta italiano del secolo scorso che in Ossi di seppia diceva: «Codesto solo oggi possiamo dirti/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Sembra quasi un programma per tenere in non cale gli studi organizzati, istituzionalizzati, burocratizzati che tutto sono tranne che conoscenza. Infatti, Montale che fu poeta e critico e giornalista e tant'altro, non era laureato. Come non lo era Federico Fellini. Né Vittorio De Sica e per questa strada si potrebbe continuare a lungo.
Ed eccoci al punto: l'organizzazione statale degli studi, soprattutto in chiave monopolista, non va d'accordo con la libertà di pensiero che è per natura come si è ricordato con Socrate a guardia della libertà civile. Il maggior filosofo italiano del Novecento, Benedetto Croce, non solo non era laureato ma teorizzò con lucida consapevolezza la necessità di dar vita a un movimento di pensiero extra-accademico perché e lo diceva in una lettera del 1903 all'hegeliano Sebastiano Maturi «la filosofia richiede animi liberi» e non è roba da professori. Il sapere nasce fuori dalla cittadella accademica e l'università serve a replicare solo il già noto. Per tutta la vita Croce tenne fede a questa fondamentale esigenza di libertà e non confuse mai ciò che è pensiero e filosofia e scienza con le cattedre, le dispense, le carriere professorali. Quando, ai primi del Novecento, difese Giovanni Gentile che l'università di Napoli teneva alla porta, scrisse un opuscolo Il caso Gentile e la disonestà e nella vita universitaria italiana in cui arrivava ad accusare l'università di Napoli di camorra. Poi Gentile, si sa, riuscì ad entrare e fece carriera nell'università, forse anche troppa arrivando a sovrapporre filosofia e istituzione, pensiero e stato; tuttavia, anche la vita filosofica di Gentile, soprattutto per come morì, non la si può ridurre alla sua professione di professore di filosofia. In Croce, per altro, vi era proprio la netta distinzione tra filosofo e professore e, anzi, riteneva che il filosofo di professione, il filosofo puro, appunto, il professore di filosofia non poteva fare altro che cedere il passo al filosofo-storico ossia al filosofo che, forte delle sue esperienze reali riguardanti ora la poesia, ora la politica, ora l'economia, ora la morale, era in grado di giudicare gli atti umani concretamente senza cadere in vaniloqui o nella retorica e la pedanteria che sono tipiche espressioni dell'accademia italiana. Non deve essere per nulla un caso che un allievo di Gentile, che lo seguì a La Sapienza di Roma, è oggi riconosciuto come un importante filosofo italiano ma mai si laureò: Andrea Emo. Era veneziano, scrisse senza pubblicare e solo nel 1986 i suoi Quaderni finirono tra le mani di Massimo Cacciari che si rese conto del valore del suo pensiero che per statuto è anti-accademico. E Manlio Sgalambro? Non imparò di certo l'arte di pensare all'università. Si iscrisse pure a giurisprudenza ma «la filosofia la coltivavo già autonomamente. Mi piaceva il diritto penale e per questo scelsi giurisprudenza». Ma basta leggere uno qualunque dei libri di Sgalambro, a partire da La morte del sole per trovarsi dinanzi uno spirito che riguarda il mondo e non il mondo accademico.
Del resto, l'ispiratore di Sgalambro è stato Schopenhauer che - amato da Anacleto Verrecchia, altro spirito anti-accademico, e da Sossio Giametta, anche lui estraneo al circuito dei professori senza filosofia nell'Ottocento fu un feroce critico dell'università, arrivando a dire che è la morte del pensiero. Arthur era invidioso di Hegel (che non era filosofo in quanto professore ma professore in quanto filosofo). Ma questa, come si dice, è un'altra storia.
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