Nel celebrare davanti a 100mila persone il ventesimo anniversario dell'assassinio di Rabin, Bill Clinton ha esortato gli israeliani a portarne avanti l'eredità: «I rischi della pace - ha detto - sono meno gravi del rischio di allontanarsi da essa». Ma, quasi contemporaneamente, l'Isis diffondeva il suo primo video in ebraico, in cui un terrorista armato di pugnale annunciava: «Ci stiamo preparando per una grande guerra contro Israele, con l'aiuto di Allah. Nessun ebreo verrà lasciato vivo». Non c'è da meravigliarsi se, in un clima del genere, i tentativi della comunità internazionale di usare l'intifada dei coltelli per rilanciare - anche in sede Onu - il processo negoziale, magari fissando alle parti un termine per raggiungere finalmente un accordo sui «due Stati che vivono in pace e armonia uno accanto all'altro», siano destinati a fare poca strada.
Oggi come oggi, a livello politico né israeliani, né palestinesi, credono più veramente in questa soluzione: i primi perché ritengono la nascita di uno Stato indipendente in Cisgiordania, che potrebbe cadere facilmente nelle mani degli estremisti e diventare la piattaforma per attacchi terroristici o missilistici, incompatibile con la propria sicurezza; i secondi perché, specie nella componente di Hamas che governa a Gaza, hanno tuttora come obbiettivo finale la eliminazione dell'«entità sionista», e nel porre le loro condizioni si comportano come se gli arabi avessero vinto la guerra del '67: rientro di Israele nelle vecchie frontiere, rifiuto di riconoscerlo come Stato ebraico, diritto al ritorno (in territorio israeliano) per i quattro milioni di profughi del '48 e dei loro discendenti, nuova spartizione di Gerusalemme.Dopo la ripresa della violenza a Gerusalemme e nei Territori, sia pure basata più sull'iniziativa di «lupi solitari», imbevuti della campagna di istigazione e di odio portata avanti dai media palestinesi, il premier Netanyahu ha egualmente proposto (forse più per conseguire un vantaggio tattico che per convinzione) una ripresa delle trattative, e il segretario di Stato americano Kerry ha cercato di cogliere l'occasione volando per l'ennesima volta in Medio Oriente.
Sembra che, anche grazie alla saggia mediazione del re di Giordania, sia riuscito a calmare un po' le acque, smontando la (falsa) accusa dei palestinesi che Israele si appresti a modificare le regole per l'accesso alla Spianata del Tempio, terzo luogo più sacro dell'islam, che costituiva il pretesto per molti attacchi. Ma più in là non si è andati, e difficilmente si andrà, anche perché Abu Mazen sembra puntare in questo momento soprattutto su un'offensiva diplomatica tesa a conquistare i favori della comunità internazionale: è riuscito a ottenere dall'Onu il riconoscimento come «Stato» e il conseguente accesso ai suoi vari organismi, come la Corte internazionale criminale dell'Aia e la commissione per i diritti umani, in cui attaccare lo Stato ebraico e metterlo sul banco degli imputati per la continua occupazione della Cisgiordania. La campagna ha già ottenuto qualche successo, soprattutto in Europa, dove molti Stati (compresa l'Italia, esclusa la Germania) si sono astenuti su votazioni cruciali per Gerusalemme in varie sedi.Se una buona metà degli israeliani ritiene che lo status quo sia, specie in questo momento di grande turbolenza per tutto il Medio Oriente, la soluzione più indolore, essi si rendono anche conto che non può durare in eterno.
Nella sua forma attuale, l'occupazione della Cisgiordania è costosa, rischiosa e, se perpetuata, finirebbe con l'attirare su Israele troppe critiche: perciò, a un certo punto bisognerà scegliere tra un ritiro (e il conseguente, temuto riconoscimento della Palestina) e una forma di annessione. Ma contro questa soluzione - comunque internazionalmente inaccettabile - gioca il fattore demografico.
Gli arabi anche quei 1,6 milioni che hanno già la cittadinanza israeliana, con diritto di voto - fanno più figli degli ebrei, e in breve diventerebbero maggioranza. Sarebbe la fine del sogno sionista. Non c'è perciò da stupirsi se, su tutte queste questioni, la società sia spaccata, e il governo «immobilista» di Netanyahu abbia alla Knesset un solo voto di maggioranza.Livio Caputo- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.