Quella delle presidenze regionali reclamate dalla Lega è un vaudeville di cui è facile indovinare il finale: è più che probabile che il Carroccio farà il bel gesto di rinunciare alla Lombardia e al Veneto. E così il furbissimo Bossi avrà acchiappato con una fava sola un’intera piccionaia. 1) Consolida il suo ruolo di alleato responsabile, pronto a sacrificare interessi di partito per il bene della coalizione, rinunciando a qualcosa che ha preteso con vigore ben sapendo che quasi sicuramente non sarebbe riuscito a ottenere. 2) Evita di cacciarsi in un mare di guai: soprattutto in Lombardia, con una maggioranza composita e litigiosa, i paragoni con la gestione Formigoni potrebbero rivelarsi devastanti. 3) Si costruisce un credito con gli alleati: passerà - c’è da scommetterci - all’incasso con un Tir direttamente allo stabilimento dove si fabbricano cadreghe. 4) Si costruisce un credito con gli elettori. Dirà: «Vedete come siamo stati disciplinati e responsabili». Se poi le cose non andranno benissimo (e di sicuro qualcuno farà in modo che non lo vadano), il refrain sarà: «Noi avremmo fatto di meglio ma non ci è stato permesso di farlo». 5) Tiene accesa la sua base che ha bisogno del fragore celtico che precede la battaglia ma che è di bocca buona sui risultati. 6) Compare per settimane e mesi sulle prime pagine dei giornali e sui notiziari televisivi, rubando la scena agli altri e facendosi passare per il vero protagonista della commedia. 7) Rafforza il ruolo di «domatore di leoni», e quindi di leader, di Berlusconi. 8) Evita (ultimo ma proprio non ultimo) di crearsi dei problemi in casa. Un governatore della Lombardia, o più ancora del Veneto, finirebbero per costituire un punto di riferimento, una calamita di popolarità e una immagine di potere troppo forti per non avere delle ripercussioni sulla personale leadership di Bossi.
Tutte le decisioni che vengono prese dal capo della Lega vanno innanzitutto lette nell’ottica dei rapporti interni, nell’impegno in cui dà il meglio di sé. Oggi più che mai le sue condizioni fisiche e la situazione di precarietà statutaria (le cariche congressuali sono in disinvolta «prorogatio» da quattro anni) lo spingono a evitare di crearsi concorrenti. Così «si contenterà» di un candidato in una Regione dove non si vince (Emilia o Liguria) ma dove c’è l’occasione per allargare il consenso elettorale, oppure in Piemonte per mettere in una situazione rischiosa il più rampante dei suoi ras, inguaiandolo se vince o ridimensionandolo se perde.
Si dirà che così si butta via l’occasione storica di guidare una grande Regione.
Ci si dimentica che è già successo. Nel 1994 presidente della Lombardia è stato il leghista Paolo Arrigoni, oltre a tutto in una situazione di gran lunga più favorevole: era in coalizione con alleati psicologicamente in disarmo e travolti da Tangentopoli, disponeva del miglior gruppo consigliare che la Lega abbia mai espresso, aveva dietro di sé un partito fresco, in espansione, pieno di entusiasmo e di gente ben motivata, in più sia il sindaco che il presidente della Provincia di Milano erano leghisti.
Il risultato non è stato entusiasmante.
Il fatto è che l’attuale posizione della Lega non ha alternative. Non può imitare la straordinaria «via catalana» giocata sul controllo del potere locale e sul condizionamento di quello centrale per ottenere progressive fette di autonomia. In Catalogna ci sono diversi partiti che incarnano varie sfumature dell’autonomismo. Nella sua ricerca di monopolio rappresentativo, la Lega ha fatto fuori ogni altra voce relegando un rilevante numero di autonomisti nell’astensionismo. I «catalanisti» sono liberi di far pesare il proprio appoggio a entrambi gli schieramenti nazionali. La Lega dipende da Berlusconi.
A causa del suo ondivagare e dello stalinismo interno, oggi Bossi non ha i numeri per pretendere reali concessioni di autonomia. Sempre che questo sia al vertice dei suoi obiettivi: più d’uno - soprattutto fra gli ex leghisti - ne dubitano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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