Pericolosi venti di guerra sull'isola di "Mediterraneo"

Attorno alla greca Kastellorizo i turchi avviano prospezioni marine e una flotta. Atene reagisce

Pericolosi venti di guerra sull'isola di "Mediterraneo"

Per Vasilissa era tutto «logico»: «Mia mamma una puttana, mia nonna una puttana, mia sorella una puttana». Le colpe dei padri - o i mestieri delle madri - non dovrebbero ricadere sui figli. Siamo, però, in Grecia: il fatalismo è di casa. Questa è una delle scene cult del film Mediterraneo. Non solo per l'Oscar del 1992, ma anche per la bellissima Vana Barba, che percuote un polpo, mentre spiega il suo destino. Oggi lei, che fu miss Grecia e sfiorò la fascia di miss Mondo, è impegnata sui social in cause molto glam; Gabriele Salvatores ha compiuto 70 anni e quelle sue «truppe» poco marziali - da Diego Abatantuono, a Claudio Bisio - possono festeggiare i 29 anni del film.

Con paradosso tutto greco, invece, l'isola del film dedicato «A quelli che stanno scappando», non è più simbolo di libertà e oblio: qui, dove gli italiani si perdevano nel tempo della fiction, oggi si gioca un pericoloso risiko dei mari che sta mettendo a dura prova anche l'Europa e - at large - anche la Nato. A ben guardare non è storia di oggi: il castello rosso le diede il primo nome, Kastellorizo. Le sue dimensioni le donarono il secondo, ironico, appellativo, Meghisti: la più grande, se paragonata agli scogli che la circondano. Il terzo nome, Meis, invece, glielo gridano dalla costa vicina i turchi, che mal tollerano questo scoglio ellenico che confonde i limiti delle acque territoriali. La madrepatria sta, con Rodi e il Dodecaneso, a 72 miglia nautiche, mentre a meno di 3 km, si agita il guazzabuglio di Kas e sventola lo Ay Yildiz, la bandiera turca. A occupare Kastellorizo, però, ben più minacciosamente dei soldati di Salvatores, nei secoli, sono stati in tanti: Cavalieri di Gerusalemme, Aragona, veneziani e, naturalmente, gli ottomani. E si sa: fra Grecia e Turchia non scorre buon sangue, non solo per l'occupazione e la divisione di Cipro del 1974, ma almeno dai tempi degli antichi persiani, quando re Serse il Grande progettò un immaginifico istmo attraverso il monte Athos, violando il suolo ellenico, per far passare le sue navi con più velocità. Lo racconta Erodoto, gli archeologi cercano ancora le sue tracce, ma il dado era tratto. Grandi battaglie o ruvide schermaglie avevano solo sfiorato l'isola blu dove 500 abitanti hanno sempre tenuto saldo il loro porto, l'atmosfera orgogliosamente rilassata, l'ospitalità né sdolcinata né di convenienza. Quel Mediterraneo, però, ora è agitatissimo: oggetto del contendere sono i fondali di questo Egeo gran bleu e gran caos di idrocarburi e gas. Il problema sono i limiti delle acque territoriali e le EEZ - zone di commercio esclusivo fra Paesi. A iniziare la partita è stata la Turchia: Recep Tayyp Erdogan pregava nella neo riconquistata Santa Sofia, mentre il suo governo trasmetteva un perentorio e spiccio Navtex: «Salpiamo alla ricerca di gas per salvaguardare la nostra indipendenza energetica». La Grecia non ha gradito, ha chiamato in causa l'Unione europea, consultando, prima, il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, poi accettando la mediazione, per ora fallita, di Angela Merkel e minacciando, quindi, di rivolgersi al tribunale dell'Aia: «La più piccola scintilla può tramutarsi in disastro».

Atene ha trovato anche il tempo per ribadire un bilaterale economico con l'Egitto, che ha fatto infuriare Erdogan. Mentre l'Europa tentennava, senza trovare unanimità, sulle prime eventuali sanzioni da comminare al «sultano» di Ankara, la Grecia si immusoniva, annunciando di voler ampliare da 6 a 12 miglia lo spazio delle proprie acque territoriali. Un'operazione che varrà anche nello Ionio, forse per risvegliare pure una reazione di quegli amici italiani, finora ritenuta troppo «timida». Ed è così che anche il nostro cacciatorpediniere Durand del la Penne ha, infine, diretto la prua in zona, unendosi alle esercitazioni congiunte di Cipro, Francia e Grecia, previste dall'operazione Eunomia, un ironico «buongoverno», che ora pare lontanissimo. Nel frattempo ogni Paese ha fatto il suo gioco: l'Egitto si scopre pro Grecia, la Libia strizza l'occhio ad Ankara. Israele fa un endorsement agli ellenici, gli Emirati alla Turchia da dove le basi americane non si perdono una mossa. La Francia in missione, non tanto (o non ancora) per conto dell'Ue, semmai del presidente Emmanuel Macron, ha inviato anche aerei per tenere d'occhio l'orizzonte.

Come a dire: siamo tutti qui e vediamo chi sgarra. Sì, perché da inizio agosto la nave turca Oruc Reis viaggia, col suo sonar in ascolto, circondata dalle occhiute navi di Ankara, a loro volta guardate a vista dalla flotta ellenica. Due navi si sono anche speronate e ognuno ritiene che sia stata colpa dell'altro e di mappe navali che riportano diversi confini territoriali. Ognuno legge come provocazione i gesti dell'altro: una nave sonar ha bisogno innanzitutto di silenzio per scandagliare i fondali, mentre in superficie il rumore, in questo angolo di Mediterraneo, si è fatto assordante. Erdogan avrebbe dovuto ritirare la sua «flotta» in questi giorni. Invece ha appeno esteso ai primi di settembre le sue ricerche, mostrando i muscoli e tirando una corda ormai sottilissima. Quel che si teme non è il risultato delle indagini sottomarine, ma l'onda lunga delle conseguenze. «Sto simio miden», «al punto zero», titolavano i quotidiani greci in questi giorni. E allora l'unica nave che sarebbe bello vedere all'orizzonte è quella di Aziz, il pescatore turco del film di Salvatores.

Riusciva a dire solo «Non so!», ma sapeva bene che cosa voleva. Prima vende fumo e qualche ora di gioia ai soldati italiani, poi li deruba. «Mai fidarsi dei turchi» sentenziano l'indomani i greci di Kastellorizo. Che avessero ragione anche nel film?

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