"Spadolini fu un padre della patria". Il racconto di Cosimo Ceccuti

Il giornalismo, la storia e la politica, la presidenza del Consiglio e l'eredità spiriturale e culturale dell'ultimo padre della patria: "La sua vita un viaggio da Croce a Prezzolini"

"Spadolini fu un padre della patria". Il racconto di Cosimo Ceccuti

Il Professor Ceccuti non è solo un illustre accademico, ma forse uno degli ultimi custodi dell’eredità culturale e spirituale di Giovanni Spadolini, il suo grande maestro. A Pian dei Giullari, immersi in quelle colline ricche di ulivi, tra targhe celebrative di figure che il trascorrere del tempo ha reso quasi mitiche, da Galileo al Guicciardini, si nasconde anche la casa di Spadolini. Quella casa fatta costruire affinché diventasse non solo “la casa dei libri”, ma un punto d’incontro per i giovani del domani. E tra queste mura si inizia come un lento e dolce cammino nella vasta fenomenologia spadoliniana, rimanendo ammaliati dalla stanza denominata “maestri e compagni”: “Era per lui sacra. Ricordo che quando veniva il sabato e la domenica, a volte andava a rileggersi dei libri, dove in assoluto silenzio, non voleva essere disturbato e diceva appunto: “Dialogo con i miei compagni e maestri…”.

Professor Ceccuti, Spadolini la definì “il più diletto dei miei allievi e che considero come un figlio”.

“Ho conosciuto Spadolini nel 1965 quando sono entrato all’Università “Cesare Alfieri” di Firenze. Il sogno era di fare il giornalista sportivo, come il mio mito del tempo Nicolò Carosio. Ma furono le lezioni di Spadolini a farmi cambiare idea. Nel ‘69 alla fine del percorso di laurea mi propose di restare in ateneo, fu la mia scelta di vita. Da quel momento divenni il suo assistente, e nei trent’anni a suo fianco sono rimasto tale, perché lui era veramente un grande maestro”.

Le dette del “lei” fino all’ultimo?

“Sì. Anche se ad altre auliche figure della nostra storia, come Bobbio, Galante Garrone, Valiani, Bo, Luzi – collaboratori della Nuova Antologia – davo del “tu”, solo perché me lo avevano permesso loro. E quando Spadolini sentiva mi riprendeva affettuosamente: “Ma come ti permetti nel dare del “tu” a Bobbio?”, “ma lo sai chi è Bobbio…?”.

Chi sono stati i maestri e compagni di vita di Spadolini?

“Il primo ad aver avuto una grande influenza su di lui è stato Benedetto Croce, di cui lesse tutte le opere e con cui ebbe una fugace conoscenza. Quindi Bobbio, Valiani, Montanelli: anche se c’era una differenza di età ne aveva molta stima”.

Giovanni Papini?

“Il rapporto nasce dall’amicizia che Giovanni aveva con Barna Occhini, genero di Papini. Ci sono nell’archivio diverse opere con la sua dedica; nel libro Vita di Michelangelo nella vita del suo tempo scrisse “A Giovanni Spadolini, che comprende e ama la storia di Firenze e d’Italia, questo tentativo di una storia intellettuale del nostro Cinquecento”. Nel ‘50 parteciparono, con Soffici e Bargellini, alla stesura del volume Firenze fiore del mondo… e se si guarda la firma di Giovanni Spadolini, assomiglia molto a quella di Giovanni Papini. Io ho l’impressione che lui si rifacesse a questo grande maestro della sua vita, che ebbe anche il merito di fargli conoscere l’editore Vallecchi”.

Papini ebbe un ruolo fondamentale anche nella vita di altri grandi intellettuali.

“Al giovane Spadolini faceva leggere scritti non pubblicati, e probabilmente rivedeva in lui, quel ragazzo che insieme a Prezzolini, a inizio ‘900 aveva dato vita a riviste di successo come Il Leonardo e La Voce. Papini ebbe il merito di introdurre Campana e Ungaretti nel mondo della cultura, ma anche Baldini, Cecchi e tanti altri dovranno a lui una parte del loro successo”.

In occasione della morte di Papini, Spadolini direttore del Resto del Carlino titolò il suo articolo in terza pagina Una lezione inconfondibile.

“Fu un omaggio ad un maestro e amico, in cui ebbe modo di ricordare l’importanza di Papini nella letteratura italiana e il legame con Firenze, tanto da inserirlo tra quei pittori rinascimentali che hanno avuto il merito di lasciare una lezione unica, inconfondibile. Papini fu per Spadolini uno scrittore che non si stancò mai di sapere e che non mise mai limiti alla propria curiosità intellettuale ed umana”.

Quanto fu importante per l’affermazione e la formazione intellettuale del giovane Spadolini l’incontro con Pannunzio?

“Fu estremamente importante. Pannunzio aveva letto gli scritti di Spadolini su Il Messaggero - dove comparvero i primi articoli - e il libro su Sorel. Il primo articolo risale al ‘48 ed è incentrato sulla figura di Gobetti, un altro riferimento centrale nella sua vita. Pannunzio quindi lo chiamò al Mondo, offrendogli – addirittura – di fare il redattore, cosa che lui non fece perché nel ’50 ebbe l’incarico a Scienze Politiche a Firenze. Fu però presente dal primo numero del Mondo, occupandosi di tematiche culturali. L’incontro con Pannunzio fu fondamentale perché lo spinse a intensificare la ricerca, la lettura, la scrittura, e più che sull’Italia ufficiale lo invitò a scavare sull’altra Italia, quella dei cattolici e dei laici. Nacquero L’opposizione cattolica e L’opposizione laica”.

Leo Longanesi?

“Fu suo editore e lo coinvolse nell’attività del Borghese. E a Spadolini che il settimanale fosse di destra o di sinistra non importava, lui amava soltanto scrivere. Ci sono lettere in cui Pannunzio gli scrive “Giovanni non lo puoi fare… di scrivere su Il Mondo e Il Borghese”. Scelse il Mondo, ma per rispetto a Longanesi disse a Pannunzio: “Guarda, lascia che trovi un sostituto” e per sei mesi scrisse anonimo senza mettere la firma”.

E poi c’è l’amico toscano, il maestro e compagno, a cui rimase sempre legato: Indro Montanelli.

“Montanelli, di età maggiore, lo ha sempre venerato come un grande amico e storico. Quando Spadolini fece Il Papato socialista edito da Longanesi scrisse sul Corriere della Sera un pezzo dal titolo: Giù il cappello: è nato uno storico. E gli spalancò la strada…

Pannunzio fu il grande maestro?

“Direi di giornalismo e di anticonformismo”.

E Missiroli?

“Pannunzio fu qualcosa di più, lo indirizzò… Missiroli invece lo accolse, aveva una grande fiducia. E se lo portò con sé al Corriere nel ’52 quando divenne direttore”.

Nella lunga vita di Spadolini, caratterizzata da una galleria di straordinari incontri, troviamo anche un altro personaggio a cui fu molto legato, Giuseppe Prezzolini.

“Legatissimo a Prezzolini. C’era tra i due un’intesa familiare e intellettuale. Spadolini considerava Prezzolini – come Montanelli – il più grande giornalista italiano. Lui era suo direttore al Carlino, e ci sono delle lettere molto belle di Prezzolini dove gli dice che “è il miglior direttore che ho avuto nella mia vita”. E difese a oltranza Prezzolini dagli attacchi di Salvemini, secondo cui aveva trasformato la casa di New York in una cassa di risonanza del fascismo. Era un grosso errore! Ne soffrì molto e la gioia di Spadolini fu tanto grande quando riuscì a portarlo per i suoi cento anni da Pertini, presidente della Repubblica, il leader della Resistenza, che gli dette la penna d’oro e fu una ‘pacificazione’ di cui Prezzolini fu felice”.

Il loro primo incontro risale agli anni ‘50?

“Sì, 1955, quando Prezzolini rientrò per la prima volta in Italia. Più tardi siamo andati a trovarlo anche a Lugano, era vicino ai cento anni e facemmo una discussione sull’antigiolittismo. Mi colpì molto, nonostante l’età, la sua straordinaria lucidità”.

Con Salvemini come si conobbero?

“Li mise in contatto il comune amico Piero Calamandrei. E Spadolini prima di comporre Il Papato socialista, scrisse Il ’48. Realtà e leggenda di una rivoluzione, mandandolo a Salvemini in America. E l’intellettuale meridionale rispose “Bellissimo. Letto con vera gioia e consenso continuo. Solamente… temo che potrà gustarlo come me solamente chi già conosca i fatti per averli studiati sulle fonti, e non nei testi scolastici…”. Il libro era scritto con la passione di un ragazzo poco più che ventenne… più prudente il giudizio di Croce”.

Nei libri di Spadolini emerge sempre una forte attenzione al mondo cattolico, in particolare ai rapporti tra Stato e Chiesa. Dove nacque questa sua curiosità?

“Questa curiosità nacque sulle pagine del Mondo di Pannunzio, dove lui maturò L’opposizione cattolica… fece studi d’archivio molto importanti quando stava a Roma, ad esempio in Via Ripetta nell’archivio della Civiltà Cattolica, studiò tutti i congressi, i contenuti politici, l’organizzazione dei cattolici, l’obolo di San Pietro, la San Vincenzo de’ Paoli, quindi i rapporti tra Giolitti e i cattolici. Nel ’67 scrisse Il Tevere più largo, prendendo spunto dal nuovo corso ecclesiastico inaugurato con l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni XXIII che rispose ad un telegramma di auguri di Malagodi. I liberali erano sempre stati ‘malvisti’ in quanto rappresentavano il Risorgimento, l’anti-Chiesa, l’anticattolicesimo… e Spadolini disse: “Allora c’è una svolta nella Chiesa”.

Tra i politici risorgimentali più apprezzati c’era Bettino Ricasoli, fiorentino come lui. Cosa ne apprezzava?

“In Ricasoli vedeva il protagonista dell’unità d’Italia. Nel ’59 fu Ricasoli a impuntarsi non volendo uno Stato federale, ma l’annessione al Regno di Sardegna. Nonostante fosse di carattere impossibile, soprannominato “l’orso dell’Appennino” e “il barone di ferro”, ne apprezzava la passione per l’unità del paese e la rigorosa onestà”.

A soli trent’anni fu nominato direttore del Resto del Carlino.

“Montanelli che lo ha conosciuto e lo sapeva cogliere come pochi, anche nelle ‘pinzettature’ che gli faceva, diceva: “È una carriera napoleonica perché ha fatto il ministro senza aver fatto un giorno di sottosegretario, il professore universitario senza aver fatto un giorno di assistente, ha fatto il direttore di giornale senza aver fatto un giorno da redattore”. Questo era Spadolini!”.

L’11 febbraio 1968 Spadolini divenne direttore del Corriere della Sera. Il primo gesto fu di andare a rendere omaggio a Montale.

“Montale era per lui un punto di riferimento, un prestigioso redattore e per di più condividevano il pensiero politico. Montale quando divenne senatore a vita entrò nel gruppo repubblicano. Spadolini, da uomo di cultura, potenziò la terza pagina portandoci grandi firme come Valiani, Flaiano, Sciascia e tenendo quelle che già vi erano come appunto Montale, Buzzati, Montanelli, Stille, Bettiza…”.

Si racconta che accanto alla porta di direttore del Corriere avesse posto una lampadina che si accendeva di rosso quando era al telefono e voleva dire di non essere disturbato.

“È vero, parlava spesso con Roma, con gli esponenti dell’alta politica. Aveva un senso aulico della direzione, il suo mito era Albertini, un direttore che rimandava via gli articoli, li correggeva, era padrone di tutto… una volta Moravia aveva mandato a Spadolini una novella diciamo un po’ “sconcia”, e imbarazzato nel dovergli dire di non poterla pubblicare, trovò una soluzione astuta. Chiamò Moravia e gli disse, “guarda novella bellissima, ma credo che non tutti i lettori del Corriere la capiranno… Io però la pago lo stesso, come se l’avessi pubblicata…”.

Lo Spadolini direttore di giornali deve necessariamente rapportarsi con la classe politica di allora. Quali erano i politici più apprezzati e con cui aveva un legame anche personale?

“Un uomo politico a cui sempre si ispirò fu De Gasperi. Ne apprezzava le straordinarie doti politiche, ma soprattutto gli riconobbe un merito, di aver combattuto l’integralismo cattolico. De Gasperi aveva capito che l’Italia aveva bisogno della Dc, ma nello stesso tempo non si doveva staccare dai partiti laici. Minore stima l’aveva di Togliatti, nel ’64 in occasione della morte scrisse: “È stato tutto e il contrario di tutto, lo staliniano più fedele e zelante che abbia conosciuto il comunismo dell’occidente”. Moro lo definì "il depretis cattolico” e lo ammirava per la sua capacità di mediazione. Ed era una qualità che Moro aveva. Apprezzava il suo fiuto politico, lo vedeva protagonista del centro-sinistra nel quale credeva, tant’è che lo sosteneva apertamente nella vita pubblica e privata. E quando entrò in parlamento, Moro lo scelse per fondare il ministero dei Beni Culturali”.

Nenni e Saragat?

“Di Saragat era molto amico e ne apprezzava il socialismo riformista, di Nenni aveva una grande stima. Però con Moro e Saragat aveva un’amicizia personale”.

Com’era invece il rapporto con Giorgio La Pira, storico sindaco di Firenze?

“La Pira era per lui un altro grande maestro, un intellettuale cattolico di altissimo livello. Era stato suo professore durante gli anni di studio di giurisprudenza. C’era una grande stima e amicizia”.

In che modo nacque l’intesa politica tra La Malfa e Spadolini?

“Spadolini condivideva il filone culturale, politico ed economico rappresentato da La Malfa. Rigore nelle finanze pubbliche, europeismo, concorrenza… A La Malfa dedicò la prima intervista da direttore del Corriere della Sera, portandolo in un giornale ‘abbastanza’ liberal-conservatore. Quando poi venne cacciato dal Corriere nel marzo del ’72, trovò tre offerte: una di Malagodi, una di Saragat e una di La Malfa. I liberali avevano il collegio al Senato a Milano, i repubblicani avevano la Camera con Bucalossi, e lui accettò la sfida pur sapendo delle difficoltà”.

Di Spadolini si dice che fosse “il più lamalfiano tra i lamalfiani”.

“Credo di sì. Perché era un lamalfiano onesto, corretto, convinto. La Malfa nel partito repubblicano era una potenza… Spadolini invece non era un politico come La Malfa e, prima di arrivare alla segreteria, ci fu un breve periodo di interregno. C’erano diverse personalità autorevoli come Visentini, Compagna, ma la scelta ricadde su di lui perché era l’uomo che non infastidiva nessuno, non aveva tessere… Dettò una condizione, ovvero quella di decidere la linea politica, mentre della gestione dei soldi non volle sapere nulla”.

Montanelli in uno dei suoi colpi da maestro lo definì “il segretario fiorentino”, richiamando il grande Machiavelli.

“E lui quell’articolo se lo incorniciò… ebbe una gioia immensa! Con Montanelli il rapporto fu straordinario, di affetto reciproco. Sulla linea politica il direttore del Giornale non mancava di ‘punzecchiarlo’ per qualche apertura a sinistra. Quando ad esempio Scalfari -– amico di Spadolini dai tempi del Mondo – faceva un elogio al governo, Montanelli tirava le orecchie dal Giornale e allora Spadolini rammaricato, perché ci teneva molto al suo giudizio, passati alcuni giorni andava a Milano a trovarlo per una specie di pacificazione. Immancabile il pranzo da Bice con tanto di fagioli toscani. Montanelli pur essendo amici, non gli risparmiava niente. Una cosa però ha sempre ammirato in Spadolini, la pulizia morale. C’è una bellissima frase in cui dice “Spadolini potrà essere criticato o pieno di sé, però quando vi passa accanto lascia dietro il profumo del sapone di Marsiglia”.

Per quale ragione negli anni di ascesa di Spadolini come presidente del Consiglio e come figura anche centrale nel governo Craxi, non si creò una cosiddetta “forza laica”?

“Si parlò tanto di “forza laica”, di “terza forza”, ma alla fine non venne fuori niente, anche se doveva essere a guida socialista essendo il partito più forte. È difficile dare una risposta, io credo che la cosa più significativa fosse una certa rivalità elettorale, finendo con il pescare nella stessa area di centro, laica e democratica…”.

È vero che De Mita temeva l’ascesa di Spadolini?

“Il grande successo espansionista di Spadolini nell’83 non fu perché aveva preso voti a Craxi, anzi, li aveva mangiati alla Dc, che perse quasi il 4%. Un certo ceto medio, iniziò a guardare con interesse al Partito Repubblicano di Spadolini, e ciò spaventò De Mita, tanto da dare il via a Craxi (prima glielo aveva negato)”.

Cosa rappresentava invece “il partito della democrazia” teorizzato da Salvatorelli e ripreso dal segretario repubblicano?

“Spadolini vi intendeva un partito che unisse le forze laiche e democratiche superando gli schemi rigorosi dei partiti divisi fra di loro. Era quindi un tracciato ideale che andava da Croce a Salvemini”.

Spadolini, da presidente del Consiglio, nel viaggio in America nell’82 incontrò Reagan che lo definì “il leader più colto dell’occidente”.

“Aveva un rapporto molto buono con Reagan. Il Professore non solo era filoccidentale, ma anche e soprattutto filoamericano”.

Dello Spadolini pubblico si sa quasi tutto, di quello privato poco. Come era nei suoi momenti familiari?

“Aveva un grande culto degli affetti familiari. Nel privato era piacevole e simpatico perché lasciava quell’abito tutto blu, quella rigidità apparente e diventava l’arguto fiorentino, cioè la persona di spirito, scherzosa, divertente, entusiasta… era quello che alla fine era riuscito a cogliere Forattini, “il bambinone piano di entusiasmo”, preso anche di sé, che però aveva la gioia di vivere addosso”.

È stato l’ultimo grande politico risorgimentale?

“Forse no, c’era anche Ciampi”.

C’è una parte di Spadolini che ha amato di più tra il suo essere storico, giornalista e uomo delle istituzioni?

“Lui amava molto il giornalismo e la storia, e aggiungeva di essere prestato alla politica, anche se ne aveva una grande passione. Si trattava di tre anime destinate comunque a intrecciarsi”.

Firenze fu la sua città del cuore.

“Era la patria dell’anima” secondo una sua definizione”.

Come ricorda gli ultimi momenti insieme a Spadolini?

“Gli ultimi tempi furono molto dolorosi. Gli vennero a mancare le forze, le elezioni ad aprile, il peggioramento a giugno; gli ultimi momenti erano dedicati a lasciare le istruzioni per la sua eredità civile e culturale che oggi vive nella fondazione che porta il suo nome”.

Spadolini scrisse tra i tanti libri, Gli uomini che fecero l’Italia, tra questi inserì Alfieri, Gobetti, Einaudi ecc… Guardando retrospettivamente, possiamo inserire anche lui tra coloro che fecero l’Italia?

“Sì. Può stare tra i padri della patria.

E non lo dico per affetto ma da osservatore di storia. In questo secondo dopoguerra il suo governo, il suo carisma, la sua personalità e autorevolezza, nonché l’elevata qualità morale e culturale ne hanno fatto un vero statista”.

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