"La mia Tangeri è un giardino dove la letteratura ha messo le radici"

Da sempre innamorato del Marocco, lo scrittore milanese anche nel suo nuovo libro «Arabesco» infonde la magia di un mondo che ha affascinato molti autori

"La mia Tangeri è un giardino dove la letteratura ha messo le radici"

Sono a Rohuna, in questo posto in campagna...». Umberto Pasti, «scrittore e giardiniere» come ama definirsi, è nato a Milano e in Marocco ha due «posti», entrambi nel Nord del Paese: uno è, appunto, nella valle di Ro huna, sulla costa oceanica, ed è «un giardino pieno di piante in una terra molto assolata e isolata dove, fino a pochi anni fa, si poteva arrivare solo a piedi o a cavallo». Ne ha parlato in Perduto in paradiso e Un giardino atlantico (Bompiani). L’altro «posto» è a Tangeri, la città che conquistò Tennesse Williams e la Beat generation, Truman Capote e i Rolling Stones, l’«Interzona» della geografia, delle leggi e dello spirito dove Burroughs iniziò a concepire Pasto nudo: Pasti ne parla nel suo nuovo libro, Arabesco (Bompiani, pagg. 224, euro 18) e si tratta di «una casa piena di cultura e del passato della città». Oltre che invasa da Diego, un duende, lo spirito dispettoso e indispettito di un ex proprietario...

Umberto Pasti, come ha scoperto Rohuna?
«In uno dei miei giri, cercando piante selvatiche. Il duende è molto geloso che trascorra qui tanto tempo, perché vuole che parli di Tangeri e mi concentri sulla sua storia e la sua casa...».

Il suo primo incontro con il Marocco?
«Il primo incontro con il Nord del Marocco è avvenuto 36 anni fa, mentre viaggiavo su un’auto scassata, come racconto all’inizio del libro, e mi sono subito innamorato di questo pezzo di mondo».

Perché?
«Sembro pazzo a dirlo, ma è stato per i fiori. Era un paradiso di iris e narcisi, di distese fiorite che dominavano il mare... Tangeri era una città dimenticata, negletta, dove il potere non interveniva: era molto bella.
Aveva 80mila abitanti, oggi ne ha un milione e mezzo.
Ho comprato prima la casa di Tangeri e, dopo dieci anni, un pezzo di terra in questa valle».

In quei dieci anni che cosa ha fatto?
«Giravo alla ricerca di fiori, che amo. Il Nord del Marocco ha le montagne, è piovoso, molto verde, con i corbezzoli, le foreste... Sei in Africa, ma è come essere sulle nostre montagne».
Scrive che «il giardino è un dramma», anche letterariamente parlando.
«È assistere alla vita e alla morte delle piante, alle loro lotte, alle difficoltà, alle intemperie, alla siccità. Non è solo qualcosa che riguardi la bellezza, o un ornamento, come la gente spesso pensa: è vita, ci sono cose belle e cose complicate, c’è la morte dentro la vita».

Scrivere è come fare un giardino?
«Sì. È una composizione: scegliere gli elementi - le piante o le parole - accostar « li, spostarli, fare dei tentativi e, alla fine, inventare qualcosa che prima non c’era».

In che rapporti è col duende?
«Mi ha lasciato. È stato con me per tre anni e, quando ho finito il libro, se ne è andato. E mi ha anche liberato: non ne potevo più...».

Nel suo libro ci sono molti altri fantasmi: è il passato letterario e artistico di Tangeri che ritorna?
«Sì, uno dei temi è proprio questo, la storia di Tangeri dagli anni Trenta e del suo passato grandioso, di letterati e pittori. È sempre stata amata dagli artisti per la sua bellezza geografica: è una città su due mari, il Mediterraneo e l’oceano, con una luce incredibile, che ammalia. Per esempio Matisse lavorò qui a lungo, e tutti i Beat, Kerouac, Corso, Ferlinghetti, Burroughs, perché era una città molto tollerante e molto libera, dato che al potere non interessava».

Era proprio un’«Interzona»?
«L’Interzona di Burroughs è una metafora della città: un melting pot di razze, nazionalità, indiani, mercanti cinesi, inglesi, francesi, anche qualcuno che si era nascosto perché durante la guerra non si era comportato bene, spagnoli, contadini andalusi... Già nel ’400 gli arabi si erano rifugiati qui dalla Spagna. Tangeri accoglie da sempre popoli diversi, dai tempi di fenici, cartaginesi e romani».
Anche Capote se ne innamorò.
«Sì, certo. C’è un suo libro, Colore locale, con un pezzo su Tangeri. Il fotografo Cecil Beaton veniva sempre. Già nel Seicento Samuel Pepys era stato qui, e poi erano venuti Mark Twain, Alexandre Dumas, Pierre Loti e il nostro Edmondo de Amicis, il cui Marocco inizia qua».

È ancora una meta di artisti?
«Con gli anni si è calmata: quando siamo arrivati noi c’era solo una vecchia colonia di residenti inglesi, un po’ impoveriti, ma era bello».
Il cuore della comunità letteraria però era Paul Bowles, l’autore del Tè nel deserto.
«Sì. Eravamo amici, veniva spesso a mangiare da me, poi è stato colpito dalla sciatica ed è rimasto bloccato da dolori fortissimi. Claude Thomas, la sua traduttrice francese, era una mia cara amica e ci frequentavamo. Una sera, qui a casa mia, c’era un giornalista che lo tormentava: lui si è addormentato e ha iniziato a russare...».

Che uomo era?
«Abbastanza amaro, molto spiritoso, molto preciso, come sempre sono gli artisti: perché l’arte è artigianato, e quindi devi essere puntuale, uno coi piedi per terra».

Anche lei è preciso?
«Io ho a che fare con le piante e con le parole, che esigono precisione assoluta: altrimenti, le frasi vengono brutte e le piante muoiono».

Chi altro è passato nella sua casa?
«Tutti i Beat sono passati di lì, perché in passato era la casa dei De Gramont, Sanche e Nancy: lui, Sanche, era un famoso scrittore, che poi cambiò il nome in Ted Morgan, ed era molto amico di Burroughs.
Poi, quando la casa è diventata nostra, una delle prime sere venne Alberto Arbasino: lo avevo incontrato a Tangeri e invitato a mangiare. Amava Tangeri, veniva ogni estate per due settimane ed era molto simpatico, diceva che la casa era “mozartiana”. Veniva spesso la mia amica Patrizia Cavalli, ci divertivamo moltissimo. E poi Julian Schnabel, Hanif Kureishi, Benedetta Craveri...».

Ha conosciuto anche scrittori marocchini?
«Ho incontrato Mohamed Choukri, l’autore di Pane nudo, un libro bellissimo. Lui era un alcolizzato, molto depresso. E ho conosciuto bene Mohamed Mrabet, amico di Paul Bowles, anche lui scrittore e pittore, oggi molto anziano e depresso, non incontra più nessuno».

E le sue collezioni, con cui «affolla» la casa?
«Sono convinto che l’identità di un popolo si esprima nei manufatti. Ma in Marocco non c’è il senso del conservare, perciò io ho cercato di conservare delle testimonianze del passato di questa terra che amo, accumulandole dissennatamente: terracotte, oggetti preistorici, tessuti, tappeti, mobili dipinti... Il mio sogno è che tutto questo diventi un museo, in cui io possa vivere, come il giardino di Rohuna che, attraverso i biglietti pagati dai visitatori, aiuta il villaggio intorno».

Che cosa ama tanto di Tangeri e della sua casa?
«L’atmosfera. Qualcosa che c’è solo qua: un mix di familiarità e esotismo, e una certa malinconia. Sono luoghi, Tangeri e casa mia, che non includono la contemporaneità: sono un po’ sospesi nel tempo, come una favola, che non sai mai quando si svolga».



L’«Interzona» esiste ancora?
«No, non c’è più. Oggi Tangeri è una città marocchina. In queste pagine ho cercato di fare rivivere quella città, dagli anni Trenta agli anni Sessanta, anche se amo vivere in quest’epoca, meravigliosa e difficile».

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