Il Professore Piero Craveri, non solo è uno degli ultimi grandi accademici di storia contemporanea del nostro paese, ma è anche per eredità familiare e passione, un autentico testimone del ‘900 italiano. Suo nonno era Benedetto Croce, colui che Prezzolini definì “il poeta della filosofia”, sua madre Elena Croce, è stata una delle donne più vivaci e colte del secolo, nel cui salotto di casa ha riunito la migliore intellettualità italiana, da Moravia a Zolla, mentre il padre, Raimondo Craveri è stato tra i fondatori del Partito d’Azione. In Craveri, o meglio nella sua famiglia convivono dunque questi due grandi filoni di pensiero: quello liberale e quello azionista. L’aspetto che più colpisce del Professore, è la sua gentilezza, unita ad un amore sconfinato per la storia: “È stata la mia vita”.
Professore Craveri, come ci si sente ad essere eredi di un grandissimo filosofo come Benedetto Croce?
“È stata la croce, se posso così dire, di tutta la mia vita. Quando si hanno dei parenti così illustri, bisogna prendere esempio dal punto di vista etico, seguirli, per quanto è possibile, da un punto di vista intellettuale, mentre fare confronti è solo distruttivo”.
Conserva ancora dei ricordi di suo nonno?
“Ricordo che per le vacanze di Natale andavamo a Napoli e il nonno stava sempre nel suo studio. Era una persona, nella vita quotidiana, molto seria e realista, riguardo a noi nipoti poi era affettuoso, attento anche ai problemi che come adolescenti avevamo. Naturalmente rimaneva distante, sempre occupato dal suo lavorare e studiare, non consentendo una vera intimità, però era una presenza che si faceva sentire”.
Come è stata la sua giovinezza?
“Non sono stato un buon studente, pur essendomi laureato con il massimo dei voti con Francesco Calasso, ho fatto soprattutto politica universitaria. Pannella fu il mio primo referente, la prima amicizia che feci all’università, la più profonda. Sono stato anche presidente dell’Unione Goliardica Romana”.
Lei proviene da una famiglia in cui sono presenti importanti influssi politici e culturali provenienti sia dal Partito Liberale sia dal Partito d’Azione di cui suo nonno e suo padre sono stati tra i fondatori. Come ha vissuto in casa questa diversità?
“La polemica di Croce con il Partito d’Azione non arrivava in famiglia. Mio nonno rispettava mio padre perché aveva avuto un’intensa vita partigiana, dirigendo l’ORI, l’Organizzazione Resistenza Italiana, consistente in un articolato sistema di ricetrasmittenti dall’Italia occupata e provvedeva inoltre ai lanci aerei di aiuti alle formazioni partigiane. Preoccupazione di mio nonno era che il Partito d’Azione, costituito da un complesso amalgama politico, scivolasse verso il Partito Comunista. Una preoccupazione, che non aveva nei riguardi di mio padre, il quale era vicino alla componente azionista di Ugo La Malfa”.
Doveva esserci un bel fermento culturale a casa vostra. Anche sua madre, Elena Croce, era donna coltissima e dalla penna raffinata.
“Mia madre già durante la guerra faceva una rivista che si chiamava Aretusa, rivista di letteratura, poi con mio padre fondò Lo Spettatore Italiano di critica letteraria e politica. Aveva una scrittura sempre di intensa e complessa riflessione intellettuale”.
Suo padre ebbe un’esperienza anche alla Comit che è stata una fucina importantissima per la formazione di parte della classe dirigente italiana da cui provenivano figure come Malagodi, La Malfa, Cuccia, suo padre ecc…
“Mattioli è stato per più di quarant’anni amministratore delegato della Comit ed era un uomo di grande levatura culturale. Anche eccelso editore attraverso la casa editrice Ricciardi… Alla Comit, negli anni ’30 diede (cosa allora straordinaria) lavoro a molti antifascisti come Valiani, Gerbi, La Malfa e altri, destinandoli all’Ufficio Studi, che è stato poi un veicolo di classe dirigente. Non aveva un buon rapporto con la Dc, a differenza dell’ottima intesa che aveva con De Gasperi e temeva molto l’instabilità del sistema, soprattutto dopo il ’53, ritenendo non si dovesse trascurare anche la sponda comunista. Non che fosse filocomunista ma dava un giudizio tutto sommato positivo della posizione del Pci e pensava che potesse essere un ulteriore ancoraggio del sistema. Tant’è vero che fece entrare nello Spettatore italiano Franco Rodano, la cui attenzione era tutta rivolta verso l’iniziativa politica del Pci”.
È vero che sua madre nel 1948 votò Saragat, cioè i socialdemocratici?
“Sì. Mia madre non si è mai identificata nel Partito Liberale, a differenza di mio nonno che ne è stato uno dei fondatori. Nel ‘48 votò Saragat che fu il suo modo di uscire dall’azionismo. Poi si legò molto al Mondo di Pannunzio che rappresentava quella costola liberale che lasciò definitivamente il Pli all’arrivo di Malagodi. Anche io, nei primi anni Sessanta, ho iniziato a scrivere sul Mondo”.
Quale ritratto fa del direttore del Mondo?
“Pannunzio era un uomo che conosceva bene l’Italia, la vita politica, i pregi e difetti dell’intero paese. Liberale, anche se le sue posizioni non coincidevano con le posizioni del Partito. Una persona molto attenta e con una grande capacità di capire la natura del prossimo e quindi di stabilire relazioni. Il Mondo d’altronde era un giornale aperto a gran parte dell’intellettualità italiana. Per me quello con Pannunzio sia stato un incontro determinante nella mia formazione intellettuale”.
Com’era la vita nella redazione del Mondo?
“Vivace, sempre intensa, c’era sempre qualcuno con cui scambiare opinioni. Alessandro Pavolini, Nina Ruffini, Antonio Cederna, Leo Valiani, Vittorio de Caprariis, ecc. Tutto si svolgeva in una grande stanza centrale in cui ci si fermava a discutere. In prima liceo avevo aderito al Partito Socialista, poi, quando fu fondato nel '54, mi iscrissi al Partito Radicale di Pannunzio, Carandini, Olivetti, Pannella… Con Pannella sono in seguito tornato a collaborare due volte. La prima per la campagna del divorzio, e la seconda quando mi propose di fare il capolista di una lista civica verde per la Regione Campania: risultai eletto e in seguito anche in due consiliature per il Comune di Napoli”.
Pannella doveva avere un forte temperamento.
“Tenere un rapporto con Pannella non era facile. Era un personaggio notevole sotto moltissimi aspetti e con una grande capacità di intuire la natura delle persone ma anche di disporne. Ricordo che lo andai a trovare intorno al '71, aveva una piccolissima sede in Via XXIV Maggio e mi disse: “Abbiamo approvato la legge sul divorzio e se si farà il referendum lo vincerò. Poi, il partito arriverà ad avere più di una decina di deputati”. Io, uscendo, pensai fosse divenuto folle. Eppure nei dieci anni successivi ha realizzato tutte queste cose. Salvo che, nel ’79, pur avendo conseguito un successo elettorale considerevole, decise di intraprendere una politica di “testimonianza” anziché di operare per un vero cambiamento del sistema politico”.
Il legame tra la famiglia Calasso e la vostra? Roberto, figlio di Francesco, è stato proprietario e direttore della casa editrice Adelphi.
“La casa editrice Adelphi fu fondata da Luciano Foà e Roberto Calasso. Foà aveva a lungo lavorato per Einaudi ed aveva una solida esperienza editoriale. Ispiratore di ambedue fu Bobi Bazlen. Roberto incontrò Bazlen a casa di mia madre”.
Tra gli animatori della casa editrice Adelphi viene citato anche Roberto Olivetti. Figlio di Adriano.
“Conoscevo bene Roberto Olivetti, viveva qui a Roma. Aveva avuto la disavventura, essendo figlio di suo padre, di non riuscire a imitarne il successo imprenditoriale. Ma era un uomo colto, intelligente, ricco d’interessi”.
Chi frequentava casa Croce-Craveri?
“A casa nostra veniva gran parte dell’intellettualità italiana ed europea, da Zolla a Moravia, Calvino, Natalia Ginsburg…”.
Qual è secondo Lei la mancata formazione in Italia di un partito liberale di massa?
“Il punto da cui bisogna partire è la crisi dello Stato liberale avvenuta alla fine della prima guerra mondiale. Il risultato elettorale delle elezioni del ’19 diede all’insieme delle varie liste democratiche e liberali meno del 50%; i socialisti arrivano al 30% e il Ppi al 20%. Il Partito Popolare era un partito di centrosinistra che non trovò il punto di congiunzione con il promiscuo mondo democratico-liberale e nel vuoto che si determinò al centro del sistema politico si sarebbe affermato il fascismo. Ai primi del Novecento e fino al termine della prima guerra mondiale, salvo che in Inghilterra, non è esistito in Europa un partito liberale di massa. Come si può pensare che si formasse proprio in Italia nel secondo dopoguerra, con il peso fortissimo che aveva la Chiesa cattolica e il Partito Comunista? Quella liberale ha rappresentato una minoranza sia politica e sia culturale. Uno dei lasciti che appartengono a quel pensiero politico, fin dall’800, è costituito dall’impianto costituzionale che caratterizza i paesi democratico liberali, a cui hanno partecipato e partecipano altri partiti di massa”.
A livello politico il Partito Liberale sarà sempre minoritario, mentre a livello culturale ebbe una forte influenza.
“Dal punto di vista culturale continua ad esserci una notevole presenza liberale, seppur con rivoli diversi, che non sono solo quello crociano. Non va dimenticato che i primi vent’anni del secondo dopoguerra sono anche dominati dalla polemica togliattiana, rivolta in particolare contro Croce, perché per aprire una strada primaria alla cultura comunista quello era l’ostacolo da abbattere”.
C’è stata dopo l’unificazione del 1861 un periodo di governo che potremmo definire liberale?
“Quello della Destra storica. Subito dopo il 1861 hanno fatto tutte le cose fondamentali necessarie alla costruzione dello Stato nazionale”.
Giolitti dove lo colloca?
“Con il processo di industrializzazione dei primi del ‘900, occorreva che lo Stato liberale volgesse la sua attenzione ad altri strati sociali. Nel 1880 il suffragio era stato allargato e nel '12 Giolitti introdurrà il suffragio universale maschile. Nella sua opera di statista costituì dunque un rapporto con il mondo operaio e contadino, legittimando il diritto di sciopero e puntando sulla contrattazione collettiva ed aprendo anche la maggioranza parlamentare ai socialisti”.
E disse: “Abbiamo mandato in soffitta Marx”.
“Marx è andato in soffitta molto più tardi. La sociologia marxista non coglie più le trasformazioni di oggi, però a quel tempo individuava aspetti decisivi della conflittualità sociale e, com’è noto, portò nel '17 in Russia a quella rivoluzione che instaurò un’economia colettivista e uno Stato totalitario”.
I governi De Gasperi sono da collocare in una parentesi liberale?
“Sì. De Gasperi nei suoi anni di governo partecipò alla costruzione dell’Europa, stipulò il Patto Atlantico (sistema di alleanze che tutt’oggi regge questo paese) e diede avvio al risanamento economico con il contributo prezioso di Einaudi, governatore della Banca d’Italia e ministro del Bilancio, prima che Presidente della Repubblica, una delle maggiori figura del liberalismo italiano”.
Nei suoi studi e scritti risalta molto il profilo di De Gasperi. Cos’è che l’ha colpita particolarmente di quest’uomo e politico?
“Il senso dello Stato, la sua umanità, l’intelligenza politica, il rispetto del gioco democratico, oltre una grande pazienza, quella che è necessaria in politica”.
Lei ha usato il termine “solitudine” riferito agli ultimi anni di De Gasperi.
“La figlia Maria Romana che ne ha accudito la memoria con grande maestria – ha scritto un libro intitolato De Gasperi uomo solo. Già nel '50 infatti, quando formò il suo V governo, trovò grossissime difficoltà proprio nella Democrazia Cristiana. E fu da quel momento che De Gasperi iniziò ad essere sempre più solo, nonostante perseguisse costantemente l’obiettivo di stabilizzare il sistema sul piano internazionale ed interno”.
I rapporti tra De Gasperi e Croce?
“Prima della guerra vi sono alcune lettere di De Gasperi a Croce su argomenti storico letterari. Dopo la guerra il rapporto si fece più intenso e soprattutto politico. Croce aveva una grandissima stima di De Gasperi e vi è una lettera del ’51 in cui riconosce tutti i meriti che sono storicamente propri dello statista trentino”.
Lei si sente liberale?
“Certamente lo sono”.
Cos’è per Lei il liberalismo?
“È una domanda difficile a cui rispondere perché il liberalismo è una storia che si snoda per oltre più di un secolo assumendo forme diverse. Richiede una lunga risposta ma in sintesi può dirsi che costituisce il principio fondamentale su cui deve basarsi uno stato democratico”.
Nella disputa tra Croce ed Einaudi da che parte sta?
“Penso che tutti e due in fondo avessero ragione, l’uno in relazione all’individuo, l’altro alla società”.
C’è un personaggio storico che Lei ha apprezzato oltre a De Gasperi?
“L’ultimo personaggio che ho avuto modo di studiare con attenzione è Aldo Moro e ne ho concepito una grande stima perché dopo De Gasperi è l’altro grande dirigente politico cattolico. Secondo me con lui finisce la Dc, nel senso che era un uomo che teneva sempre conto di una visione complessiva del sistema politico, quella che dopo di lui venuta a mancare”.
C’è una frase che vorrebbe dire o lasciare ai giovani di oggi?
“Studiate la storia”.
La storia per Lei cosa ha rappresentato?
“La storia è lavoro a cui mi sono dedicato tutta la vita”.
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