
«La depressione ti fa sentire come se fossi in un tunnel buio, senza via d’uscita, e la cosa peggiore è che chi ti sta intorno non capisce, confondendo la depressione con una semplice tristezza passeggera». Sono parole del mio amico Vittorio Sgarbi, che pur nella depressione che sta vivendo non ha perso l’esattezza nel descrivere non solo la propria condizione, ma quella di chi davvero soffre di depressione.
Ci conosciamo da trentacinque anni, e a lui devo il mio esordio letterario, quando gli scrissi una lettera (non c’erano ancora le mail) perché l’editore aveva paura di pubblicare il mio primo scandaloso romanzo senza una prefazione autorevole, e Sgarbi senza conoscermi mi telefonò, dandomi un appuntamento alle due del mattino all’Hotel Majestic, dove all’epoca risiedeva. Grazie alla sua prefazione, generosissima verso uno scrittore esordiente e sconosciuto, il romanzo uscì, e non mancò mai di difenderlo da tutti gli attacchi. Non ci siamo mai frequentati più di tanto, più che altro sentiti al telefono, spesso in orari improbabili: Vittorio ti chiama quando gli altri dormono, ha sempre avuto un fuso orario suo.
Mi colpisce molto sentirlo depresso, ma anche descrivere la depressione come solo lui poteva fare, con parole precise. «La depressione è un treno fermo in un luogo ignoto». Anni fa ne parlammo al telefono (sempre con il suo fuso orario, pianeta Sgarbi), perché io come scrittore ne soffro da anni ma l’ho sempre esorcizzata con la scrittura, l’unica vita che può avere un vero scrittore. Come scriveva Cioran: «Scrivere è un suicidio differito». Vittorio ha sempre glissato, Vittorio è sempre stato un ciclone, non poteva fermarsi, non voleva fermarsi. Perfino sua sorella Elisabetta, straordinario editore (forse l’unico vero editore puro rimasto in Italia, che risponde solo a se stesso e capace di scelte coraggiose), e persona iperattiva quanto lui, ha sempre fatto fatica a stargli dietro.
È stato questo a renderci due opposti che si capivano senza doversi troppo spiegare: Vittorio ha esorcizzato la depressione vivendo dieci vite in una, non restando mai fermo, non lasciando la sua mente mai immobile su qualcosa. La cultura, l’arte, rendere la sua stessa vita un’opera d’arte, in ogni istante, perfino i suoi libri sono protesi di sé stesso, e diventano spettacoli teatrali con il suo corpo. Io, da parte mia, rinunciando a vivere per scrivere, non uscendo mai di casa, non vedendo mai nessuno se non pochi amici.
I due estremi, l’iperattività vitalistica di Vittorio e la mia reclusione misantropica, l’autoprigione di vivere la vita solo scrivendo, l’eccesso di visibilità e l’eccesso di invisibilità, credo fossero un modo per sfuggire alla lucidità. La depressione è innominabile perché, come dice Vittorio, nessuno può capirla. È una lucidità esistenziale da cui fuggi per sopravvivere, in un modo estremo o nell’altro. Samuel Beckett chiude L’innominabile con questa frase: «Devi andare avanti. Non posso andare avanti. Andrò avanti». Per uno scrittore non scrivere più equivale a morire, tant’è che Cesare Pavese, nel suo ultimo messaggio, scrive: «Non parole, un gesto, non scriverò più». Avrebbe potuto dire “non vivrò più” ma le due cose si equivalgono.
No, nessuno può capire Vittorio, perché la depressione è una condizione esistenziale di estrema lucidità, e perché Vittorio è sempre sembrato l’opposto. Del corpo, come lui stesso ha dichiarato, non se n’è mai occupato: la sua mente ha sempre trascinato tutto.
Probabilmente essendo consapevole del pensiero di Leopardi: «Pare un assurdo, eppure è esattamente vero, che tutto il reale essendo un nulla, non vi è nulla di reale né altro di sostanza al mondo delle illusioni». Sono le illusioni che ci rendono vivi, e ci tengono lontani dal vedere la realtà. Quando la vedi, nessuno può capirti, perché non riesci a vedere neppure te stesso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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