Philippe Forest sa dire anche il dolore indicibile

In «Per tutta la notte» l’autore francese riesce a esprimere il suo essere orfano di un figlio. Senza finzioni consolatorie

C’è poco da stare allegri. Eppure Per tutta la notte è una festa. I lettori sono avvertiti. E non suoni come un invito ingannevole il titolo del romanzo - già il secondo - di Philippe Forest il quale, per colui cui sia sfuggita la prima sconvolgente prova narrativa (Tutti i bambini tranne uno, Alet 2005), premette expressis verbis a mo’ di promemoria un pensiero di Yuko Tsushima: «Nel nostro mondo la morte di un bambino è diventata qualcosa che si dimentica nella vita di tutti i giorni, al punto che bisogna ricordarla espressamente in forma di racconto».
Ma non suoni perciò come l’annuncio di un rito lugubre, funereo e luttuoso il memento dell’autore giapponese apposto in epigrafe. Per tutta la notte - tradotto e curato da Domenico Scarpa (Alet, pagg. 300, euro 17), eletto sabato scorso tra i migliori titoli stranieri di quest’anno dalla giuria del premio Grinzane Cavour - è una festa della scrittura. Cerimonia sontuosa della letteratura. Officio celebrato nella prosa chiamata dalla sua presa (o dal distacco) sulla vita (o la morte) a una solennità e a una serietà che - in fondo e sempre - per vocazione squisitamente poetica le competono.
Il francese, oggi 44enne, critico letterario e docente di letteratura all’università di Nantes, vi racconta di sé. Di una propria drammatica esperienza di vita. Della morte della sua bambina uccisa da una malattia incurabile. Ma niente eufemismi. Non ne merita il feroce cancro alle ossa che nel ’95 divorò la piccola Pauline prima che arrivasse a compiere 5 anni. Non ne spettano alla nera fioritura di metastasi che sfuggì agli strumenti dei dottori ed è colta e impaginata dalla penna affilata del narratore: con precisione di parole taglienti efficaci più dell’esattezza chirurgica dei verbali clinici.
Con tutto questo Per tutta la notte, dettato da una storia vera, non è un capitolo d’autobiografia. Nutrito d’un ricordo incorreggibile, non è quella che Oltralpe si dice autofiction: consolatoria finzione immaginativa. Segnato da un dolore inconsolabile, non vale da consolatoria cura estetica: cosmesi terapeutica che camuffi col belletto delle lettere i graffi e le cicatrici della psiche. E, anche se sappiamo dall’inizio come andrà a finire, non è un quadretto chiuso, compiuto e incorniciato: pronto per essere esposto su una lapide a perpetua memoria. «La vita non è un testo di teatro. Nessuno sa che cosa accadrà nel secondo atto», ribatte con le parole di Osamu Dazai il Forest sensibilissimo alla saggezza orientale sulla prima pagina del suo libro: a smentire le rassicurazioni della psicologia, sfatare le sublimazioni dell’arte e rinnegare come motivazione artistica la pura volontà di resistere all’oblio.
Invece, sin dall’incipit del suo romanzo, rilancia la sfida arrischiata delle parole («nessuno sa che cosa accadrà» voltando la pagina) come un grido di disperazione. «Un grido contro la corruzione» avrebbe detto Katherine Mansfield: lo disse dando un nome all’unico suo vero stimolo in «questo gioco di scrivere».

E rimette in gioco la propria avventura di scrittore shakkul (come si dice in ebraico per definire l’orso che impazzisce quando perde il suo cucciolo, è l’aggettivo più appropriato che ci viene in mente da attribuire al papà Forest): di autore sfidato a nominare l’esperienza ineffabile del restare orfano di un figlio.

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