PICCOLE INDAGINI CRESCONO

Le carte dei magistrati finiscono ai giornalisti per colpa dei magistrati che le danno e dei giornalisti che le vogliono, questo è il punto di partenza e per favore niente storie, non raccontateci di poliziotti e avvocati che passano verbali e intercettazioni, non confondiamo l’eccezione con la regola, non dimentichiamo che poliziotti e avvocati certo materiale penalmente irrilevante neppure dovrebbero possederlo: e questo per la semplice ragione che nel fascicolo delle indagini, di materiale penalmente irrilevante, non ce ne dovrebbe neppure essere. Chi ce lo mette, dunque? I magistrati. Mentre i giornalisti, frattanto, pubblicano notizie sinché ne hanno: e qui si aprirebbe tutto un dibattito su che cosa sia una notizia, se lo sia il battutaio pecoreccio su una valletta Rai, se lo siano certe porcate che magari finiranno in nulla ma di passaggio sfasciano famiglie. Che fare? Il diessino Guido Calvi ha proposto pene formidabili per i giornalisti (da sei mesi a quattro anni di carcere) mentre il Guardasigilli Clemente Mastella ha reclamato una legge che però sia condivisa da tutti. Ma va detto che di leggi negli ultimi anni ne sono state proposte almeno una decina, e una in particolare l’ha proposta il governo nel febbraio scorso: ma non è stata molto condivisa. Anzi. Rimase lettera morta per decisa opposizione dell’Unione e, toh guarda, di molti magistrati. La corrente di Magistratura democratica il 14 febbraio scrisse così: «Le restrizioni alle intercettazioni, per quanto funzionali rispetto all'obbiettivo della tutela della privacy soprattutto dei non indagati, si pongono come disfunzionali rispetto al raggiungimento dell'obbiettivo dell'incisività delle indagini». Ecco, le indagini: è l’altro punto di partenza, perché le intercettazioni, questa la mera verità, da noi hanno sostituito le indagini degli inquirenti in una maniera che non ha eguali nel mondo. Si parla di 25mila intercettazioni nel 2001 e di quasi 100mila nel 2005. Non è normale. Così, mentre ci si arrovella per trovare rimedi, ci si dimentica di attribuire responsabilità e nessuno ricorda che il rimedio in teoria sta all’origine: il segreto istruttorio sugli atti delle indagini è già previsto dal Codice agli articoli 326, 616 e 623. Tutto l’odierno dibattito sulle intercettazioni, infatti, non è diverso da quello che riguardò i famosi verbali di Mani pulite, quelli che pure, e spesso, erano privi di valenza penale ma sprofondarono tizio e caio nello sputtanamento. Il principale relatore del Codice varato nel 1989, il professor Giandomenico Pisapia, aveva detto così: «È il processo che è pubblico, non le indagini. Il nuovo Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti; il segreto nelle indagini c’è, e serve a tutelare l’indagato che teme che la divulgazione di notizie anticipate possa pregiudicare un’immagine che non sarà ripristinata neppure in caso di assoluzione». Ma da allora a oggi è andata in un altro modo. Gli stessi magistrati, di fatto, cominciarono a teorizzare giusto il contrario di quanto il Codice prevedeva. Lo fece il procuratore generale Giulio Catelani all’inaugurazione dell’Anno giudiziario 1993, lo aveva già fatto Francesco Saverio Borrelli in più occasioni, e, nel tardo dicembre 1992, lo fecero i pm Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo al Circolo della Stampa di Milano. Davigo: «Il segreto serve a tutelare le indagini, non la reputazione dell’indagato».

Colombo: «Il diritto alla riservatezza va tutelato, ma quando il progredire di tutti confligge con l’interesse generale, io penso che il più delle volte vada sacrificato il secondo al primo». Io penso: chi fa la legge e chi la interpreta. Da allora non ne siamo ancora usciti, e intanto piccoli magistrati crescono.

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