"Da piccoli abbiamo in testa tutte le lingue del mondo"

È tra i luminari della neurolinguistica: con i suoi studi ha dimostrato che parole e sintassi dipendono più dalla biologia che dalla cultura

"Da piccoli abbiamo in testa tutte le lingue del mondo"

Non è vero che esistono lingue più musicali o più inclini al pensiero astratto di altre. Ed è un'assurdità pensare che vi siano, come si dice oggi, lingue geniali, «semmai possiamo parlare di commenti geniali a lingue normali: come i commenti sulla lingua greca antica e sul latino che da duemila anni sono il modello per eccellenza dell'occidente», spiega il neurolinguista e scrittore Andrea Moro, classe 1962, collaboratore stretto del più influente linguista vivente, Noam Chomsky. Per oltre un decennio è stato ordinario all'Università Vita-Salute San Raffaele, ora ha cattedra alla Scuola Universitaria Superiore IUSS di Pavia dove ha fondato il centro di ricerca in Neuroscienze, Epistemologia e Sintassi teorica.

Moro - ospite, il 9 luglio, a Pavia, della Milanesiana - è un po' il Galilei della lingua. Ha dimostrato - anzitutto tramite la tecnica delle neuroimmagini - una serie di intuizioni, proprie e altrui. Alla base, l'idea che nasciamo con tutte le lingue in testa, ovvero con le istruzioni per l'uso di tutte le lingue che, a loro volta, non sono infinite, c'è un numero massimo, un limite oltre il quale le lingue sono semplicemente impossibili, la nostra mente non sarebbe in grado di recepirle.

Alla nascita abbiamo più informazioni di quelle che utilizzeremo. Per dire che la nostra è tutt'altro che una tabula rasa

«Non è né una tabula rasa né totalmente piena, a me piace chiamarla tabula preparata. Nasciamo con un repertorio sovrabbondante e che poi si stabilizza, proprio come accade con le malattie incontrate nei primi anni di vita che selezionano gli anticorpi compatibili con l'ambiente».

Lei parla anche di «mente staminale».

«Così come una cellula staminale potrebbe diventare una cellula dell'epidermide o di capelli, la mente del bambino potrebbe diventare una mente che parla latino, cinese o russo. Dobbiamo immaginare un fanciullo che apre gli occhi sul mondo, riconosce oggetti e situazioni da esprimere in una lingua. Come fa? Ipotesi numero uno: parte da zero e poi per tentativi, errori e imitazioni costruisce la struttura. Ipotesi numero due: parte da zero quanto a tipologia della lingua, ma la sua mente non è azzerata, è come se avesse un filtro polarizzato che rende visibile al cervello solo alcune cose».

I circuiti del cervello che servono per imparare le lingue a un certo punto, decadono. Vogliamo spiegarlo?

«L'immagine dell'apprendimento non equivale a quella di una piantina che annaffio e che dunque cresce, semmai a quella di un albero con tante fronde che viene potato: dopo la potatura rimane la tua lingua. Studi di neurobiologia hanno verificato che la fase di apprendimento spontaneo del linguaggio consiste in un decadimento di circuiti cerebrali: per passare da zero all'acquisizione della lingua italiana, un bimbo deve potare dei circuiti, rimangono quelli della propria lingua».

Fino a che età è spontaneo l'apprendimento di una lingua?

«Siamo programmati per apprendere in modo spontaneo un numero elevato di lingue fino ai cinque/sei anni, poi l'apprendimento senza sforzo diminuisce gradualmente fino alla pubertà. Da quel momento l'acquisizione passa solo attraverso la via razionale, lo studio. Una cosa facilita imparare una lingua da adulti: conoscere molto bene la propria, quindi saperla descrivere. E non pensiamo che parlare la propria lingua equivalga a conoscerla».

Cosa accade per quanto riguarda la scrittura?

«Dal punto di vista neuropsicologico, i circuiti verbali e della scrittura non sono sovrapponibili, anzi sono molto diversi. Lo si vede nella cronologia con cui tale abilità compare sia nell'individuo sia nella specie. I bimbi sono istintivamente portati a parlare ma non a scrivere, devono andare a scuola, fare esercizio per apprendere le competenze della scrittura».

A proposito di scuola, lei ha avuto un percorso di studi accidentato, con quattro cambi di facoltà. Come mai tanta inquietudine?

«Avevo frequentato il classico, e mi piaceva da matti, andavo benissimo in tutto, cosa che accade a chi non ha ancora compreso la propria passione. In università andai in crisi nera, avevo due interessi, il cervello e la matematica, ma erano incompatibili. Così mi iscrissi a Medicina per poi comprendere che il cervello l'avrei studiato al sesto anno. Allora papà mi iscrisse a Giurisprudenza, ma non c'era niente da fare: andavo benissimo ma non mi piaceva. Perso un anno. Passai a Matematica, innamorato com'ero dell'algebra, scoprendo però che avevano sospeso il corso di Logica. Disperato di nuovo, decisi di studiare Logica dai testi antichi di Aristotele, e mi iscrissi a Lettere antiche. Alla prima lezione di Linguistica Generale il professore esordì dicendo che avrebbe parlato della teoria di un americano, Chomsky, Che tratta le grammatiche come strutture matematiche espressione del cervello. Finalmente avevo trovato la mia strada».

Come arrivò a Chomsky in persona?

«Scrivendogli da studente. E lui mi rispose suggerendomi di raggiungerlo. Avevo vinto una Borsa di Studio Fulbright, così andai al MIT di Boston. Per dire che gli studenti dovrebbero osare e bussare alla porta di chi intendono incontrare...

L'ultima volta che lo ha sentito?

«Ieri sera. Sta benissimo, benché abbia patito molto la reclusione per la pandemia. Stiamo scrivendo un libro che uscirà entro fine anno o agli inizi del 2022 per La Nave di Teseo. Negli Usa uscirà per The MIT Press.

Soggetto e titolo?

«Il titolo è provvisorio, dovrebbe essere qualcosa come Il segreto delle parole. È uno sviluppo della conversazione avuta al Festival della Letteratura su quello che sappiamo oggi del linguaggio e sui misteri che lo circondano».

Il mistero numero uno?

«Da dove viene il linguaggio? Non è detto che possiamo avere una risposta. Chomsky fa l'esempio di un topo che entra in un labirinto per cercare cibo. Entra, cerca, esce. Fa tutto questo senza una teoria, semplicemente usa il labirinto. Lo stesso potrebbe valere per il linguaggio, che è paragonabile a un labirinto di cui conosciamo qualche pezzo ma non riusciamo ad avere una visione comprensiva, lo usiamo».

Altri temi?

«Si affronta il cosiddetto problema di Orwell: Perché sappiamo così poco pur avendo a disposizione così tante informazioni?. Alla gente vengono vendute trovate in modo pretestuoso. Per esempio si dice che ci sono calcolatori e telefoni che contengono motori neurali. Come facciamo a dirlo se nemmeno sappiamo come funzionano i neuroni? La cosa ha attecchito a tal punto che, a cascata, si parla di nativi digitali».

Perché è sbagliato parlare di nativi digitali?

«Perchè non è vero che oggi i bambini hanno un cervello modificato rispetto a quello di genitori e nonni. Così come non è vero che le abbreviazioni degli sms, dei messaggi, contribuiranno ad atrofizzare la capacità linguistica. Se fosse vero che le abbreviazioni sono un problema l'impero romano sarebbe durato cinque minuti: basta prendere una qualsiasi epigrafe per notare il grado di riduzione».

Lei conduce una battaglia contro l'idea della gerarchia delle lingue. Le diamo carta bianca

«Nella seconda metà dell'Ottocento, si sosteneva che vi fosse un popolazione nobile, con regole sociali nobili, con una lingua nobile. E nobile era sinonimo di ariano, sappiamo come è andata a finire. Il linguista che aveva sostenuto questa follia riconobbe di aver detto una stupidaggine e fece marcia indietro, ma la propaganda occidentale l'aveva fatta propria. Il darwinismo e l'eugenetica attecchirono ovunque, tutti pensavano che vi fossero razze migliori e peggiori».

Oggi guai a usare la parola razza.

«Che viene prontamente sostituita con etnia, lo ha fatto anche la Treccani. E con ciò cosa si risolve? Niente. Non possiamo far torto all'osservazione di chi dice che se due persone di colore hanno un bimbo questo sarà di colore oppure che se due hanno gli occhi a mandorla avranno un bimbo con gli occhi a mandorla: sarebbe innaturale non riservare un nome per questo. Ciò che è fondamentale è capire che non sono differenze di qualità. La differenza più profonda, quella che dà origine al razzismo e che difficile da smantellare, si basa sull'idea che lingue diverse producano letture diverse della realtà e che essendovi lingue migliori queste producono letture migliori. Molti biologi vanno all'attacco del concetto di razza ma si disinteressano di questo aspetto. Un collega linguista mi raccontava che in una università di New York era stata affidata una cattedra di filosofia a una bravissima studiosa africana la cui prima lingua era una lingua bantu. La sua domanda fu: "Come farà a capire concetti così sofisticati?».

Per quanto ci riguarda siamo cresciuti con il mito dell'italiano, lingua musicale per eccellenza, la più bella. Lei sostiene che non è vero.

«Dante osservava che molta gente, amando la propria città, letteratura, cucina, donne e uomini, arriva alla conclusione che pure la propria lingua sia migliore di altre. È un pregiudizio di tutte le culture. Ne parlo anche nel mio romanzo Il segreto di Pietramala, che ho costruito attingendo proprio a tre esperimenti clamorosi e dimenticati della storia dell'Occidente».

Altro errore, lei dice: credere che latino e greco aprano la testa più di ogni altra lingua. Un mito che va in frantumi

«Su queste due lingue si sono accumulati 2500 anni di osservazioni e analisi, con la conseguenza che se applichi queste analisi alla tua lingua essa stessa diventa trasparente. Non è vero che greco e latino, in quanto greco e latino, aprano la mente, è vero però che lingue analizzate così tanto offrono l'occasione per capire la propria. Sono così importanti i commenti sul greco e sul latino che le descrizioni delle altre lingue sono fatte su quel modello. E se vai alla fonte hai una visione più nitida della realtà».

La lingua nell'epoca della «cancel culture», la «cultura della cancellazione»

«Premessa. Voler cancellare alcune icone del passato è pura follia. Basterebbe guardare al lessico di una lingua per capire i debiti che abbiamo con altre popolazioni. Partiamo dall'inglese: per un terzo debitore del francese e un terzo del latino. Se gli Inglesi volessero fare piazza pulita, per coerenza dovrebbero rinunciare ai 2/3 del loro vocabolario. Gli americani che intendono procedere con le varie cancellazioni, dovrebbero smettere anche di chiamare la loro terra con il nome con cui i coniugi Vespucci chiamarono il loro figlio: Amerigo. Anzi, dovrebbero ringraziarli perché se si fosse chiamato Giuseppe avremmo gli Stati Uniti della Giuseppia. Se applicassimo questa follia allora cancelleremmo persino l'America. E poi: cancel e culture sono due parole latine. Allora? Risposta: è semplicemente impossibile».

Un interrogativo che la tormenta e intende sciogliere.

«Se la lingua serve per comunicare, perché non parliamo una sola lingua al mondo? Sarebbe più comodo. Possiamo però rovesciare la prospettiva e chiederci se tutto questo sia non una dannazione ma un dono. Negli animali il distanziamento scaturisce dalle malattie. Prendiamo un gregge: quando diventa troppo grande le malattie si moltiplicano. Perfino nei batteri se la colonia è troppo grossa si accumulano tossine e questa si autolimita.

E se negli umani fosse stata proprio la differenza linguistica a mantenere i gruppi piccoli? Nell'evoluzione storica, il distanziamento sociale è stato prodotto anche dall'incomunicabilità, la nostra specie è stata avvantaggiata dall'incomunicabilità. Forse Babele è un dono, forse tutte e tutte le diversità lo sono».

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