Piede in due staffe, la vera strategia del centrosinistra

Federico Guiglia

Ma si può essere orfani del maggioritario e allo stesso tempo ignorare il principio del bipolarismo proprio nel programma di governo? Si può mostrare nostalgia per la legge elettorale che imponeva di stare «di qua o di là» e poi dar contemporaneamente ragione alla Cgil e alla Confindustria? Alla svolta della Tav e alla rivolta contro la Tav? Ai matrimoni e ai Pacs, peraltro mai chiamati Pacs per non mortificare i matrimoni?
Se c’è una contraddizione evidente in questa campagna elettorale è la differenza tra il dire e il fare del centrosinistra che si candida alla guida del Paese; e non solo perché per il dire l’Unione abbia impiegato ben 281 pagine di propositi, compilando il programma più lungo del pianeta. Anche gli ultimi interventi di Romano Prodi a «ulteriore chiarimento» del testo-infinito elaborato dalla sua coalizione dimostrano l’anomalia: i dubbi coltivati sulla politica annunciata dall’Unione, e a tratti semplicemente incomprensibile, non dipendono affatto dal linguaggio espressivo e incespicante del Professore ma dalla mancanza di chiarezza del contenuto. È la proposta a essere confusa, non la sua illustrazione scritta o verbale. Non solo. Quanto più essa viene illustrata, tanto più confusa appare. Per un motivo in fondo elementare: è difficile dire pane al pane dovendo accontentare un’alleanza di partiti divisa sulle questioni strategiche del nostro Paese.
Le diversità sulla politica industriale sono sotto gli occhi di tutti, dopo che Prodi, e uno dopo l’altro, ha accolto e raccolto sia le «esigenze» del sindacato Cgil che della Confindustria: neanche i democristiani dei tempi migliori sarebbero riusciti a dar ragione prima a Peppone e un minuto dopo a don Camillo. Ma la non meno rilevante - anche se meno accattivante per il grande pubblico - linea di politica estera presenta gli stessi e persino aggravati inconvenienti. Se un futuro governo dovesse applicare quel che è teorizzato e pubblicato nel programma dell’Unione, l’impiego dei militari italiani all’estero sarebbe vincolato non già e non più alle libere scelte del nostro Parlamento, ma al via libera delle Nazioni Unite e dell’Ue. Questa strada di sottomettere la politica internazionale del Paese a ciò che organismi internazionali eventualmente decidono, e con i gravissimi ritardi che nel caso esemplare dell’Onu tutti ricordiamo dalla tragica vicenda del Ruanda in poi, è stata in realtà preconizzata da Zapatero in Spagna in polemica risposta all’impegno delle Forze Armate spagnole in Irak da parte del suo predecessore Aznar. Ma è una strada che porta dritti alla sovranità limitata dell’Italia. Altro che «rapporto subordinato» con gli Stati Uniti, come rimprovera l’ala estrema dell’Unione all’attuale maggioranza: un domani sarebbero ben cinque Paesi con diritto di veto - Stati Uniti compresi! - a decretare se dobbiamo o non dobbiamo inviare missioni militari di pace dove vogliamo, cioè dove ce le richiedano.
Non sfuggirà al lettore che questa auto-limitazione, questo evocare un «mandato diretto e preciso delle Nazioni Unite e della Ue» - così nel programma - per rendere possibile «un impegno delle Forze Armate italiane fuori dai confini nazionali», è il compromesso necessario per tenere insieme il radicalismo pacifista col resto della coalizione.

Ma, di nuovo, siamo a una scelta diametralmente opposta a quelle che dovrebbero essere dettate dalla logica bipolare pur tanto invocata: le missioni all’estero o si fanno o non si fanno. Rifugiarsi dietro l’alibi del «permesso» altrui, è solo un modo per evitare di decidere.
f.guiglia@tiscali.it

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