Pioggia di milioni di dollari sui manager affossa-banche

Il record è di Stanley O’Neal: ha incassato 161 milioni di bonus anche se ha quasi fatto fallire Merrill Lynch

Prendi Stanley O’Neal. Dal 2002 al 2007 ha guidato una delle principali banche d’affari di Wall Street, la Merrill Lynch, guadagnando tra stipendi, bonus, benefit e stock-option 172 milioni di dollari. Quando nell’agosto del 2007 è esplosa la crisi dei mutui subprime, O’Neal ha tenuto duro per tre mesi, poi il consiglio di amministrazione lo ha pregato di accomodarsi. Lui ha obbedito. Con infamia? Macché, con una buonuscita da capogiro: 161 milioni di dollari. In tutto ha portato a casa 333 milioni di dollari. Ne converrete: è la ricompensa per un uomo che non solo ha rischiato di far fallire una società storica, rilevata in extremis da Bank of America, ma che viene considerato uno degli artefici del collasso finanziario che sta facendo tremare il mondo.
Negli ultimi cinque anni i dirigenti delle cinque principali banche d’affari hanno incassato compensi per oltre tre miliardi di dollari. «È la giusta remunerazione per chi crea ricchezza», si giustificavano e pochi osavano contestarli. Chi lo faceva veniva tacciato di populismo. Oggi sappiamo la verità: anziché crearla hanno distrutto ricchezza. E su scala planetaria, infettando il mercato finanziario con i mutui subprime e soprattutto con gli annessi derivati, strumenti micidiali come i Credit default swap o gli Asset back securities.
Ma non pagheranno per i loro errori, perché sono riusciti a sovvertire uno dei principi fondamentali del capitalismo, quello della responsabilità personale e della ricompensa proporzionata al merito. Sei bravo? Guadagni bene. Sbagli? Ne paghi il prezzo. È così da sempre. Per tutti, ma non per loro, non quando puoi avvalerti dei paracadute d’oro, che permettono morbidi, piacevolissimi atterraggi su milioni di dollari, anche quando si gestisce male una società o addirittura la si fa fallire, come sta accadendo negli ultimi mesi.
L’America si indigna, ma non può farci nulla, salvo qualche eccezione. Il governo americano è riuscito a bloccare le liquidazioni dei direttori generali di Freddie Mac e Fannie Mae, risparmiando 24 milioni di dollari, ma solo approfittando del fatto che si tratta di agenzie semigovernative. Per il resto un solo manager, Robert Willumstad, ha avuto il pudore di rinunciare ai 22 milioni di dollari previsti dal suo contratto per tre mesi passati alla testa del colosso assicurativo Aig. Tutti gli altri sono passati all’incasso. Senza scrupoli, né rimorsi.
Martin Sullivan, vero artefice del dissesto del numero uno delle assicurazioni mondiali, a giugno se n'è andato con un bonifico da 47 milioni di dollari. Richard Full, che guadagnava 90 milioni di dollari all’anno, è stato ricompensato con altri 24 per aver fatto fallire la Lehman Brothers. Charles Prince ha messo in ginocchio Citigroup e, il giorno d’addio, ha ottenuto un ricordino da 105 milioni, mentre Kerry Killinger della disastrata Washington Mutual si è accontentato di 44 milioni.
I top manager di Wall Street, fino a pochi mesi fa non badavano a spese. Sullivan dell’Aig aveva un benefit di 322mila dollari per viaggi privati con l’aereo dell’azienda, un altro di 153mila per auto e parcheggi e un terzo di 160mila per la sicurezza a domicilio. Dimenticavo: riceveva anche 41mila dollari per «pianificazione finanziaria». Geniale.
La media degli stipendi nelle grandi banche d’affari era di 353mila dollari a impiegato, inclusi bonus per 211mila dollari. La più generosa? Goldman Sachs che, nel 2006, ne accordava addirittura 521mila. Già, il 2006. È l’anno in cui Henry «Hank» Paulson ha lasciato la presidenza della banca per diventare ministro del Tesoro. Guadagnava 38 milioni di dollari e ha ricevuto una liquidazione da 111 milioni. Un membro del club prestato alla politica; con straordinario tempismo, peraltro. È lui l’autore del piano da 700 miliardi di dollari che, se approvato dalla Camera, consentirà alle banche di scaricare sulla collettività i costi delle loro sciagurate alchimie, in quello che appare come un diabolico ricatto: salvare loro è ormai necessario per salvare il mondo.
L’attuale numero uno di Goldman, Lloyd Blankfein, per l’auto ne spende 233mila, mentre per i consulenti, che usa a scopi privati, se ne fa accreditare 61mila. La sua società ha dovuto cambiare status per sopravvivere, ma lui continua a guadagnare 57,6 milioni di dollari all’anno; i suoi due copresidenti sono più ragionevoli: ne ricevono appena 56. A testa.
Insomma, la festa non è finita, come in Europa, d’altronde.

Herman Verwilst ha ottenuto per i 78 giorni trascorsi alla testa del gruppo belga-olandese Fortis (salvato dai governi del Benelux) una liquidazione da 5 milioni di euro, mentre Alex Miller, presidente del direttivo della banca franco-belga Dexia, altra vittima della crisi finanziaria, ne pretende 3,7 milioni. Anche loro senza arrossire, anzi provando probabilmente, un po’ di rabbia. Rispetto ai colleghi americani sembrano quasi dei pezzenti.
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