Piranesi, il monumentale epitaffio sulla grandezza defunta di Roma

Le certezze illuministiche vengono lacerate dalle sue inquietanti visioni oniriche

Piranesi, il monumentale epitaffio sulla grandezza defunta di Roma

«La Roma di Piranesi» al Museo del Corso, curata da Mario Bevilacqua e Mario Gori Sassoli, è una rassegna di grande qualità, che presenta opere, mai viste da noi, della collezione dei Duchi di Wellington e anche un taccuino di disegni, appunti e schizzi per la prima volta esposto al pubblico. Inoltre viene proposta una ricostruzione multimediale dei tanti progetti architettonici non realizzati e degli insiemi decorativi distrutti. Ma soprattutto ha il merito di presentarci compiutamente un artista che, come scrisse Mario Praz in un memorabile saggio, «è uno dei pochi geni tragici d’Italia, avendo a soli compagni Dante e Michelangelo. Con Piranesi tutto quello che l’Italia aveva avuto di civiltà, di sublimità di moli magnifiche, di gloria d’imperatori e di pontefici, di apparati festivi di gaie scenografie, di pompe funebri, di solenni esequie, trovava il suo monumentale epitaffio».
Il veneziano Giovan Battista Piranesi fu rapito, fin dal suo primo arrivo nel 1740, da una Roma che era insieme antica, rinascimentale e barocca. Capovolgendo schemi e convenzioni, egli lacerò le facili certezze illuministiche, svelando una città inquietante, rivissuta in una chiave visionaria e fantastica come in un sogno. Fu la sua natura di nordico, di uomo della laguna e della nebbia, a permettergli di cogliere il lato più misterioso e nascosto di Roma. Architetto di una sola opera compiuta, Santa Maria del Priorato, trovò nell’incisione non una tecnica, come accadde ad altri suoi colleghi, ma il suo genio.
Le sue vedute di Roma nascono da un modo originalissimo di concepire l’incisione. Il suo maestro Giuseppe Vasi si lamentava con l’allievo: «Siete troppo pittore!». In fondo aveva ragione, perché il genio di Piranesi era di usare nell’incisione il chiaroscuro per darci quel senso di grandezza e di vertigine insieme che è solo suo. La dilatazione prospettica sottolineata da Claudio Strinati nel catalogo Artemide, non nasce dall’esperienza di scenografo di Piranesi ma, invece, proprio da quel suo gusto originalissimo del chiaroscuro che dava una stupefacente profondità alle sue opere. Questa tecnica rivoluzionaria era al servizio di una visione del mondo - e non solo di Roma - e aveva un unico precedente per altezza poetica, il grande Rembrandt».
Piranesi si batté per dimostrare il primato di Roma nei confronti della Grecia: «Che ha da mostrare la Grecia? - scriveva -.

Non gli mostrerà capitelli, perché, toltone quello d’Eretteo, non ce n’è uno da potersi paragonare coi Romani; non gli mostrerà colonne, essendovene tanto più in Roma di qualsivoglia sorta e grandezza; non gli mostrerà statue, né bassorilievi, dei quali trovasi in paragone di quei dei Greci un’estrema copia ed eleganza». Giovanni Testori ha sottolineato che in Piranesi «la pietra è morsa dal tempo e morde, a sua volta, coi suoi denti accidiosi e indecenti, la superbia di chi il tempo ha occupato e abitato».

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