"Da Playboy ai mariti sul set la bellezza è tutta relativa"

È stata l'indimenticabile Pina, moglie (triste) di Fantozzi. Ma è apparsa anche in un servizio osé sulla rivista scandalistica: "Vi spiego perché..."

"Da Playboy ai mariti sul set la bellezza è tutta relativa"

Guardando da vicino ci si accorge che, in fondo, la bellezza non è tutto. Anzi. È solo una parte del tutto. Un concetto vago, oltre che soggettivo. E non necessariamente legato all'estetica, anche se a questa è ricondotto. Perché bella può essere una sensazione. Una persona. Un modo di pensare. O di essere. E la Pina lo è, nel suo assistere il maritino Ugo ragionier Fantozzi, il più pavido, sfortunato e paradossale italiano medio(cre). Guardandola da vicino ci si accorge che Milena Vukotic, recentemente premiata al Bardolino film festival per la carriera, è tutto questo. Donna elegante. Pura. Raffinata. Nel fare come nel dire. Intelligente. Misurata. Con una voglia di vivere e di attraversare nuove sfide da far invidia ai più giovani. Non si è mai capito se Milena Vukotic sia la Pina o se la Pina sia Milena Vukotic, di certo è un'attrice che un tempo era definita una caratterista e nel suo repertorio ha sempre collezionato ruoli sottotono. La moglie sfortunata. La zitella. La collegiale. L'infermiera. L'istruttrice di danza. La rigattiera. La consorte tradita di un altro indimenticabile fallito, come il conte Mascetti di Amici miei. In altre parole, Ugo Tognazzi. Eppure. Nella sua filmografia brillano, come stelle, firme della storia del cinema italiano e straniero. Perché Cinecittà non è Hollywood e non è bello quel che è bello. Alla faccia di tutti, nel ventesimo secolo di Milena Vukotic, spunta perfino un servizio di fotografie per Playboy.

E allora, cos'è per lei la bellezza...

«Non saprei... È tutto così relativo».

Però viviamo in un mondo in cui sembra che sia valorizzata solo quella.

«Ammesso che lo sia. Bellezza».

Proviamo a definirla.

«Qualcosa che dà un'emozione ma non c'è uno schema. Esistono belle donne e begli uomini ma poi...»

Poi...

«Dipende da quello che ognuno di noi vede nell'altro».

Un esempio.

«Anna Magnani non era bella di tratti però era straordinaria. Il fascino non è uguale alla bellezza e la fisicità della donna aveva limiti».

E anche chi non era propriamente un sex symbol si ritrova su Playboy.

«Ecco lo sapevo. Il punto focale».

Tasto proibito?

«In realtà fu tutto molto semplice».

Racconti.

«Conoscevo abbastanza bene Angelo Frontoni, fotografo di attrici molto avvenenti. Al contrario, io avevo sempre recitato personaggi dimessi o caratterizzati in negativo. Così un giorno mi disse: Non è giusto. Ci stai a fare qualche foto con me... Vorrei esaltare quello che c'è di positivo in te».

Cosa gli ha risposto?

«Ho accettato ma a un patto».

Quale?

«Ho chiesto che tutto avesse un senso e non fosse fine a se stesso».

Accontentata...

«Direi di sì. Mi fece posare davanti a pannelli di Paul Klee e mi scattò una serie di foto con veli sul seno».

Fin qui però Playboy non c'entra.

«Succede che un giorno Frontoni richiama e mi dice: Senti, le ho fatte vedere a Playboy. Tu mi permetti... mi lasci fare... Stessa risposta. Volevo che fossero accompagnate da qualcosa che desse loro un senso compiuto».

E l'articolo a corredo lo scrisse una penna d'eccezione.

«Erano gli anni Settanta e, siccome avevo lavorato con Alessandro Blasetti, chiesi che si rivolgessero a lui per sapere se se la sentiva di scrivere qualcosa sulla bellezza o la bruttezza della donna. E lui accettò».

Al buio?

«Macché, alla luce del sole. Gli mostrarono le mie immagini da brutta e zitella, poi quelle di Frontoni. Il mensile pubblicò tutto, l'articolo di Blasetti e i miei scatti patinati e ordinari. La verità è che per loro era una curiosità. Non essendo io una femme fatale e, all'epoca, nemmeno molto famosa, usciva un ritratto un po' diverso dai soliti».

Ne è valsa la pena?

«Guardi, le sembrerà strano ma non ho preso una lira. In compenso, mi sono tirata addosso gli insulti e i rimproveri di tutti. Io, però, non ho posato nuda per Playboy. Eppure».

Mi racconti qualcosa di bello.

«Qualche giorno fa ho assistito alla prima assoluta di Dante, l'ultima fatica di Pupi Avati. C'era il presidente Mattarella e tutto il governo. È un film stupendo. Ecco, corrisponde alla bellezza. Tutti i personaggi mostrano enorme forza, spirituale e di carattere, ma - singolarmente - nessuno affascina».

Lei è nel cast?

«Ho fatto una piccolissima cosa ma sono felice di averla regalata a Pupi Avati».

Ha nominato Alessandro Blasetti, regista del regime poi sopravvissuto politicamente in tempi repubblicani.

«Era un uomo delizioso. Generoso. Magnifico. Stava girando Io amo tu ami e in una scena aveva fatto recitare alcune ragazze del centro studi danza per una specie di ginnastica artistica. Reclutò anche me alle primissime armi».

Estremo politico opposto. Luis Buñuel che lei ben conosce.

«Aveva bisogno di un'attrice che parlasse francese ma fosse italiana e la mia agente gli propose alcune mie fotografie. Arrivai a Parigi con l'impegno di un film e ne girai tre. Il fascino discreto della borghesia, Il fantasma della libertà, Quell'oscuro oggetto del desiderio».

Si è trovata bene...

«Accidenti, come si fa a non trovarsi bene con questi personaggi. Sono particolari, ma, proprio per questo, unici. È stato un uomo capace di fare quello che sentiva ed è riuscito a imporsi nella storia dell'arte. Straordinario».

Oggi che cosa le rimane?

«Ho avuto il privilegio di avvicinarlo e avere con lui un dialogo. Non era distante, nonostante la sua... distanza da noi esseri umani».

Come lo chiamava?

«Per noi era don Luis. Una notte me lo sognai pure. Nel sonno mi disse che siamo tutti uomini liberi. Qualche giorno dopo, portandogli la sua biografia da autografare, glielo raccontai».

E lui...

«Io le ho detto così? Dovevo essere completamente ubriaco disse. E la dedica diventò Siamo tutti uomini cosiddetti liberi».

Da Buñuel arrivò con un'ambasciata, vero...

«Me la affidò Fellini. Dovevo portargli i suoi saluti e, detto così, sembra insignificante. Ma era bella la motivazione».

Che cosa le disse?

«È il regista che stimo maggiormente perché è capace di trasformare i sogni in realtà».

E, di sogni, Fellini se ne intende.

«Ha cambiato la mia vita, non solo artisticamente parlando».

In che senso...

«Stavo studiando tra Parigi e Londra e, nel frattempo, lavoravo con la compagnia internazionale della danza quando mi è capitato di vedere La strada. Sono uscita con l'animo capovolto e la gioia suggestiva di essere entrata in quel mondo di favola. Da allora una convinzione si radicò in me. Volevo lavorare con lui».

E arrivò Giulietta degli spiriti.

«In realtà iniziai con una piccolissima partecipazione ne Le tentazioni del dottor Antonio, un episodio di Boccaccio '70. Era un film a episodi del 1962».

Come riuscì ad avvicinarlo, non conoscendolo di persona?

«Sempre la solita storia dell'amica dell'amica dell'amica. Però funzionò. Mia mamma viveva a Roma e, tra conoscenze varie, riuscì a farmi avere una lettera di presentazione da un manager della Lux film».

Che cosa c'era scritto?

«Francamente, non saprei. Non gliel'ho mai data. E non l'ho mai nemmeno aperta».

E a che cosa è servita, allora...

«Ho avuto un appuntamento in via della Croce, nel suo ufficio ed è venuto spontaneo raccontarsi».

Come mai se la è tenuta nella borsetta?

«Non ce n'è stato bisogno. Era un uomo unico, talmente gentiluomo. Mi ha fatto fare una serie di foto e mi ha scelta».

L'hanno definito traditore, bugiardo, genio, maestro. Tre parole per descriverlo?

«Artista. Poeta. Giocoso».

Siete rimasti amici...

«Con la Masina ci siamo date appuntamento sul set di Ginger e Fred in un suo giorno di riposo. Non vedevo l'ora di respirare di nuovo la magia che solo Fellini sapeva creare».

E con lui?

«Ricordo una sera a casa mia. Una cena per sei con Federico e Giulietta, Maura e Paolo Villaggio».

Un altro compagno di vita e arte...

«Eravamo amici al di là di Fantozzi».

Già, marito e moglie...

«Un giorno che sono andata a casa sua, è venuta ad aprirmi la colf e, rivolta a Maura, mi ha annunciata tutta trafelata. Signora - ha detto - è arrivata la moglie di suo marito. Naturalmente, siamo scoppiati a ridere».

Un pezzo di vita.

«Abbiamo girato una decina di film insieme. È stato un bellissimo incontro ma, sul set, c'era il tassativo e didattico diktat di Paolo. Ricordiamoci che siamo soltanto maschere E io, quella maschera, non l'avevo mai indossata».

Che cosa le diceva?

«Ci insegnò a essere cartoni animati, senza velleità di bellezza, imparando a ridere di noi stessi osservando da vicino le persone qualunque».

Un altro marito eccellente. Lino Banfi.

«Ci siamo sposati, artisticamente parlando, così Nonna Enrica che ero io e nonno Libero che era lui sono entrati nelle case italiane per una ventina d'anni».

E ora il medico, più che in famiglia, va in pensione...

«La Rai si rifiuta di far riprendere la serie. È una scelta aziendale che fatico a condividere. Io e Lino abbiamo insistito perché siamo sicuri. Sarebbe ancora un successo. Misteri del piccolo schermo».

Recentemente è mancato Jean Louis Trintignant con cui ha lavorato ne La terrazza di Ettore Scola.

«Una volta andai in Francia per regalargli un libro su Fellini, autografato da Federico. Apprezzò molto. Lo ricordo per i suoi scherzi. Prendeva in giro soprattutto i registi che conoscevano la sua passione per la velocità e le auto».

Che cosa faceva?

«Un giorno si fece attendere sul set e telefonò dicendo che aveva fatto un incidente e non poteva continuare le riprese del film. Scese il gelo. Improvviso. Poi la sua risata ha restituito serenità».

Insomma, una vita lavorando...

«Finché rimane la capacità di giocare con queste maschere e con noi stessi vuol dire che la ciambella è venuta con il fatidico buco. In fin dei conti ogni volta che si fa qualcosa ci si rinnova e ci si rimette in gioco».

E a 84 anni ha ballato sotto le stelle in televisione...

«Il lavoro è la nostra linfa. Io e Simone siamo arrivati terzi. Non male».

Lei però è una ballerina professionista.

«Ho vinto il primo premio in conservatorio e sono entrata all'Opera di Parigi, ci sono rimasta un anno e sono passata nella compagnia di Roland Petit, un grande innovatore».

Come mai ha lasciato l'Opera?

«Non ero soddisfatta perché non facevo granché e, con una punta di incoscienza, me ne sono andata».

E poi?

«Sono stata accolta nella compagnia internazionale del marchese de Cuevas, che faceva il mecenate per conto della moglie, una Rockefeller. La mia carriera è stata un puzzle. E alla fine sono approdata in teatro».

Come mai?

«Ho iniziato seguendo corsi molto interessanti. Mio padre aveva scritto commedie e aveva aderito alla corrente futurista, pur essendo un diplomatico».

Ha girato il mondo. Conoscerà molte lingue, allora.

«Con papà parlavo in serbo, con la mamma in italiano. Tra fratelli usavamo l'inglese perché avevamo studiato a Londra. Il francese l'ho imparato a Parigi. E a Vienna, dove sono stata per due anni, ho portato a casa pure il tedesco».

È stata bravissima.

«No, mi creda. Solo fortuna».

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