Pm, avvocato e prof I sindaci "rivoluzionari" sono tutti figli di papà

De Magistris discende da una stirpe di toghe, Pisapia senior era un principe del Foro, per Doria parla il nobile cognome

Pm, avvocato e prof  I sindaci "rivoluzionari"  sono tutti figli di papà

Anche la rivoluzione tiene famiglia. L’ultima dirompente novità della politica italiana, in effetti, è una specie di Trota al sapor di comunismo: Marco Doria, figlio di Giorgio, pronipote dell’ammiraglio Andrea, discendente della nobile famiglia genovese. Uno che, per dire, si è permesso il lusso di frequentare un liceo classico che porta il suo cognome e per non sbagliare è finito in cattedra nella stessa facoltà di Economia dove insegnava babbo suo. Toh, guarda a volte, come sono le circostanze della rivoluzione.

Marco Doria, che ha già iniziato il tour da madonna pellegrina del rinnovamento (prima tappa obbligatoria: Gad Lerner), ce l’ha ben chiaro: basta con i sistemi vecchi, basta con i vecchi metodi. L’Italia cambia. Per sua fortuna, però, il cambiamento dell’Italia non è ancora così radicale da intaccare quello che Flaiano definiva il vero carattere nazionale: siamo un popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti, di cognati. E soprattutto di figli di papà. In attesa di abbandonare i vecchi metodi, ecco, meglio approfittarne ancora un po’. Poi dicono che la famiglia è un istituto in crisi.

Non è vero. La famiglia è l’unica vera certezza di questo Paese, l’unica cosa che ti sostiene sempre. Prendete questi ultimi rivoluzionari, questa stirpe di rinnovatori della politica italiana, gli uomini nuovi che dovrebbero seppellire per sempre i vizi italici. Ebbene avete presente il loro curriculum? Giuliano Pisapia, l’antisistema di Milano, è figlio di Gian Domenico, noto principe del foro, tra i redattori del codice di procedura penale, da cui, per non sbagliare, ha rilevato anche l’avviato studio legale. Luigi De Magistris, l’anti-sistema di Napoli, discende da una famiglia di magistrati, nonno giudice, padre pure (fu quello che condannò il ministro De Lorenzo e si occupò del caso Cirillo). E Marco Doria, l’anti-sistema di Genova, come si è detto, è figlio di Giorgio, professore a Economia come lui, per molti anni consigliere comunale e vicesindaco della prima giunta di sinistra nel 1974 con il Pci. Lo chiamavano «il marchese rosso», noblesse oblige.

Per essere gli interpreti della nuova politica, ecco, almeno in questo ricordano molto gli interpreti della vecchia. Anti-sistema alla stregua della famiglia Gava, tanto per dire, o De Mita. Si passano incarichi e potere per via dinastica, allo stesso modo, dei vecchi notabili dc. Ma quello che impressiona, qui, è la somiglianza dei percorsi umani e professionali dei tre rivoluzionari, Doria, Pisapia e De Magistris: tutti nati nei quartieri borghesi delle rispettive città, tutti frequentatori dei licei classici (si capisce: la rivoluzione non può prescindere dalla conoscenza del greco antico) e tutti seguaci delle orme paterne. Ora, per l’amor del cielo, noi ci crediamo che questi tre riescano d’un colpo ad abbattere tutti i vecchi metodi e le vecchie logiche della politica italiana. Ma, rinnovamento per rinnovamento, com’è che, una volta, non vince le primarie del Pd il figlio di un netturbino? O magari di un panettiere? Perché il cambiamento non viene mai interpretato da uno che è nato a Quarto Oggiaro anziché a Brera? Possibile che la rivoluzione passi sempre per le ville del Vomero e mai per gli alveari di Casoria o per quelli di Pianura? Possibile che per essere uomini nuovi sia necessario nascere nei palazzi Doria anziché a Cornigliano? Possibile che sia necessario diplomarsi nel miglior liceo classico della città? Il cambiamento non può forse essere diplomato in ragioneria? Il rinnovamento non può essere geometra o perito industriale?

I tre paladini del nuovo dicono che vogliono cambiare il modo vecchio di ragionare. Ben detto, sia chiaro. Ma perché questa voglia di novità non li ha presi anche qualche anno fa? Soprattutto: perché non ha investito la loro vita privata? Per dire: possibile che nessuno di loro, così ansioso di rivoluzionare il mondo, abbia pensato che non fosse meglio seguire orme diverse da quelle di papà? Possibile che tutta questa voglia di cambiamento non li abbia portati a prendere in considerazione l’ipotesi di confrontarsi davvero in mare aperto, ad armi pari con i loro pari età? Come è possibile conciliare la propria vocazione anti-sistema con il sistema più vecchio del mondo, e cioè il posto di lavoro nel solco paterno? Si può essere credibili anti-sistema dopo aver ereditato lo studio legale da paparino? Si può essere credibili anti-sistema dopo aver preso la cattedra nella stessa università del nobile genitore, sicuramente marchese e evidentemente anche un po’ barone?

È una strana rivoluzione questa dei nuovi sindaci, una rivoluzione che passa per vie dinastiche. Una rivoluzione che necessita di potere familiare, timbri nobiliari, conoscenze altolocate. Nuovismo&nepotismo: è il fenomeno del momento. I suoi paladini promettono di cambiare tutto, ma nascono invischiati nel solito collante di parentele.

Sventolano bandiere di ogni colore, rosse e arancioni, ma alla fine s’inchinano all’unica vero vessillo italiano, quello di Leo Longanesi: un tricolore con al centro scritto «tengo famiglia». Così l’anti-sistema avanza, ma è in realtà è un sistema vecchio e noto. Quello dei figli di papà.

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