Il divario di crescita tra Ue e Usa si allarga perché Bruxelles è solo un’unione monetaria e non anche fiscale come Washington e, dunque, ha meno strumenti per affrontare le inversioni dei cicli macroeconomici e le crisi. È quanto sottolinea Veronica Guerrieri, economista laureata all’Università Bocconi e Ronald E. Tarrson Professor of Economics presso la Chicago Booth. Guerrieri è stata insignita con Luigi Guiso e Eliana La Ferrara del Premio De Sanctis per l’Economia, assegnato da una giuria composta, tra gli altri, dal componente italiano del board Bce, Piero Cipollone, dal segretario del direttorio di Bankitalia, Gianluca Trequattrini, e dal ragioniere generale dello Stato, Daria Perrotta.
Professoressa Guerrieri, quali sono le sue opinioni sui recenti sviluppi della disoccupazione e del mismatch nei mercati del lavoro?
«Il Covid è stato uno shock asimmetrico che ha colpito in misura maggiore alcuni settori produttivi. Ora, però, i mercati del lavoro si sono ripresi tanto negli Usa quanto in Europa e in Italia dove il tasso di disoccupazione è sceso sotto il 6%. Le politiche fiscali espansive e la ripresa della domanda, legata anche alle esportazioni, hanno determinato impatti positivi sull’occupazione nel Vecchio Continente. In America la ripresa è stata determinata dall’ottima performance del mercato azionario. Questa situazione, purtroppo, non potrà durare per sempre. In Europa la crisi politica della Francia e della Germania potrebbe determinare una recessione di cui soffrirebbero pure l’Italia e gli altri Paesi. Negli Stati Uniti un’eventuale discesa delle quotazioni azionarie potrebbe determinare una riduzione della domanda e, quindi, una contrazione del mercato del lavoro. E poi gli Usa hanno un problema di debito pubblico elevato che può causare rischi finanziari che si ripercuoterebbero anche in Europa».
In Italia, come ha sottolineato, le cose stanno andando bene, ma si registra un aumento del tasso di inattività che mette in rilievo il mismatch analizzato da molti suoi studi. Come si affronta il problema del collocamento di una manodopera poco qualificata, problema che l’Italia ha in misura maggiore rispetto a Europa e Usa, visto il minor tasso di conseguimento di istruzione terziaria?
«La sfida è l’intelligenza artificiale. Sarà una rivoluzione, ma non credo che sarà così veloce come alcuni ritengono. Ci vorranno degli anni affinché queste nuove tecnologie siano utilizzate in tutti i settori. Questo cambiamento strutturale, alla fine, modificherà la domanda di lavoro e aumenteranno le richieste di profili con un più elevato livello di istruzione. La risposta a questo processo è puntare sull’istruzione e, paradossalmente, sarà più facile per l’Italia».
Perché?
«L’Italia ha le premesse per fare bene perché la scuola pubblica può raggiungere tutti i cittadini. Le richieste del mercato del lavoro spingeranno i giovani ad affrontare gli studi universitari e a essere più specializzati. Allo stesso tempo, anche nella manifattura ci sarà una maggiore domanda di lavoratori più qualificati. Tenendo presente che in Italia la popolazione sta invecchiando e richiede servizi a non alta specializzazione, credo che ci possa essere una riallocazione della domanda di lavoro a bassa specializzazione da alcuni settori come la manifattura ad altri come i servizi alla persona. Questo potrebbe alleviare il mismatch derivante dal maggiore utilizzo dell’intelligenza artificiale nel settore manifatturiero. Chiaramente, nel corso della transizione alcuni settori si trasformeranno e ci sarà bisogno dell’intervento degli Stati per aiutare coloro che potrebbero soffrirne, però sono fiduciosa che con un incentivo all’istruzione e con la riallocazione della manodopera meno specializzata la situazione migliorerà».
Tutti i Paesi dell’Ue si sono accordati per raggiungere degli obiettivi, sia sulla transizione green che su quella digitale come sulla difesa. Le nazioni europee, però, non possono spendere, soprattutto quelle dell’area euro, perché altrimenti contravverrebbero alle regole del Patto di Stabilità. Si crea, quindi, un circolo vizioso. Lei come interpreta questa situazione che interroga il ruolo dello Stato?
«Il ruolo dello Stato, a parte quello della rule of law, da un punto di vista economico è duplice. In primo luogo, è quello di risolvere problemi di azione collettiva. Uno degli esempi più lampanti è il caso dell’economia verde: le singole imprese tenderebbero a emettere più anidride carbonica rispetto al livello ottimale perché, nella scelta individuale di massimizzazione dei profitti, non guardano gli effetti sull’economia. Per questo lo Stato è importante laddove ci sia un bene pubblico da tutelare. E questa è la ragione principale per cui l’Europa ha cercato di sostenere determinate politiche attraverso il Pnrr. L’altro grande ruolo dello Stato è quello redistributivo, ossia garantire un’assicurazione sociale alle persone indipendentemente dalle condizioni di nascita. Poi, quanto esteso debba essere il sistema di welfare dipende anche dalla leadership politica. Il Patto di Stabilità è importante per il primo ruolo perché è giusto salvaguardare la spesa in settori come il green, la digitalizzazione e la difesa. Penso, tuttavia, che sia importante che esso ponga dei limiti e controlli i bilanci al fine di evitare che gli Stati aumentino i deficit. L’esperienza del 2011 ci ha insegnato che disavanzi troppo elevati possono causare instabilità finanziaria e peggiorare i cicli recessivi. In sintesi, è bene arginare spese inutili come il Superbonus per mantenere l’equilibrio e la stabilità finanziaria».
Gli Stati Uniti, nello stesso periodo in cui l’Europa si è data queste regole, hanno però registrato una crescita del Pil di gran lunga superiore.
«Gli Stati Uniti dovranno in qualche modo essere un po’ più responsabili nei confronti del proprio debito. È vero, sono un Paese molto resiliente, che gode di una situazione di privilegio in virtù della forza globale del dollaro e questo consente loro di rischiare anche un po’ di più dell’Europa. Però se il debito continua a crescere senza nessun argine, i problemi aumenteranno. C’è, però, una differenza che avvantaggia gli Usa. L’Ue è un’unione monetaria e ora si stanno compiendo sforzi verso un’unione fiscale, mentre gli Stati Uniti sono un’unione monetaria e fiscale. Questo consente loro di avere strumenti più efficaci in situazioni di squilibrio o di crisi. È questo l’obiettivo a cui l’Europa deve puntare».
L’intervento pubblico può essere decisivo, come spesso ha sottolineato nei suoi saggi, tuttavia non rischia di essere distorsivo rispetto a un mercato che nella visione classica tende sempre ad autoregolarsi e ad agire per il meglio?
«È vero che il mercato in molti casi riesce a essere efficiente, ma questo non è sempre vero. È il caso dei fallimenti o delle esternalità che non si riescono a internalizzare. L’esempio dell’economia verde è un caso lampante: il danno collettivo provocato da emissioni incontrollate chiaramente necessita dell’intervento dello Stato. Se, infatti, lasciassimo le emissioni al livello in cui sono oggi, il mondo soffrirebbe e con esso l’economia.
Il singolo individuo, la singola impresa nella sua attività quotidiana non prendono in considerazione questi aspetti perché, in ragione delle loro ridotte dimensioni rispetto a un contesto globale, pensano che gli effetti delle proprie azioni non siano importanti. È in questi casi che lo Stato deve intervenire per migliorare l’efficienza e per assicurare la crescita nel medio e nel lungo periodo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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