Quando lo Stato resta azionista di controllo le società crescono e gli investitori sorridono

Il successo di Eni, Enel e Poste. Aziende in crisi solo se il Tesoro esce dal capitale

Quando lo Stato resta azionista di controllo le società crescono e gli investitori sorridono
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Le polemiche degli ultimi giorni sulla politica di cessioni di quote azionarie detenute dal Tesoro sono «viziate» da una confusione terminologica. La furia, soprattutto da parte delle opposizioni, nel definire una «svendita» la decisione dell’esecutivo di dare corso alle previsioni della Nadef (20 miliardi di cessioni nel triennio 2024-2026) ha fatto perdere di vista la differenza tra «privatizzazione» e «collocamento». Il primo termine indica «il cedere a privati una proprietà pubblica».

Il secondo è una «cessione a privati di azioni o obbligazioni detenute sin dall’emissione». Considerando lo Stato come «venditore», nel primo caso si libera di qualcosa che possedeva, nel secondo la cessione non implica l’uscita del venditore dal libro dei soci. È il caso di tante Ipo dell’ultimo trentennio da Eni a Enel fino a Poste, Terna e Leonardo. Esempi di successo di società nelle quali lo Stato è azionista. Basti pensare solo a un dato: chi avesse mantenuto le azioni Eni dalla prima tranche del collocamento a oggi avrebbe quasi triplicato il proprio capitale (da 5,42 euro dell’offerta a 14,76 euro di venerdì scorso) incassando al tempo stesso un flusso costante di dividendi. E questo perché l’apertura al mercato ha consentito al gruppo del cane a sei zampe di continuare a crescere (oggi capitalizza 47,2 miliardi ma alcuni analisti ritengono non impossibile l’obiettivo 100 miliardi), pur rimanendo sotto il controllo dello Stato (27,7% Cdp, 4,7% il Tesoro).

Un discorso simile vale per Poste, oggetto delle procedure annunciate dai ministri Giorgetti e Urso. Da novembre 2015 (6,75 euro il collocamento) a oggi (10,36 euro) il valore della società è cresciuto di oltre il 53% superando i 13,4 miliardi di euro senza che la compresenza di Cassa Depositi e Prestiti (35%) e Mef (29%) ne abbia compromesso l’efficienza o minato la leadership nel settore assicurativo Vita in Italia. E se per Enel (Mef 31%) vale lo stesso esempio di Poste, Terna (Cdp Reti al 29,9%) - originatasi da una costola del colosso di Stato - ha pressoché quadruplicato la propria quotazione. Insomma, un affare per tutti: lo Stato ha incassato cifre cospicue (solo dalle cinque tranche Eni sono giunti oltre 24 miliardi) mantenendo il controllo e i risparmiatori e gli investitori che hanno partecipato hanno guadagnato.

Discorso diverso per i casi in cui la privatizzazione è stata totale. Telecom, ceduta interamente sul mercato, dopo l’Opa del 1999 non si è più ripresa perché il debito dei «capitani coraggiosi» è rimasto nella società acquisita costringendola ad acrobazie finanziarie continue. Dai fasti di quella scalata il titolo ha perso il 95% del proprio valore e un gigante che faceva concorrenza ai colossi europei, ora dovrà cedere la rete per ridurre un’esposizione poco sostenibile. L’Ilva è a rischio chiusura. Seat Pagine Gialle non esiste più e non per colpa di un business reso obsoleto dal trionfo dei motori di ricerca e dell’intelligenza artificiale. Insomma, quando lo Stato resta come azionista di controllo di una società, collocando parte delle proprie quote, non svende (i prezzi li decide il mercato; ndr).

Se,

invece, decide di alienare tutto, il rischio di un insuccesso è concreto. Ma poiché questa non è la strategia del governo Meloni, non c’è motivo di preoccuparsi, a meno che non si persegua un intento puramente propagandistico.

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