
Se 46 anni fa la rivoluzione khomeinista non avesse travolto la monarchia, oggi sarebbe lui l'attuale capo di Stato dell'Iran. Molti destini in una sola vita. Il principe ereditario Reza Pahlavi nasce a Teheran nel 1960, figlio dello Shahnshah Mohammed Reza Pahlavi e della Shahbanou Farah (nata Diba). Dopo un'educazione ricevuta nei ranghi della scuola della corte imperiale inizia molto presto la formazione militare in aeronautica come pilota di caccia, a diciotto anni va negli Stati Uniti per completare gli studi in Texas. È dall'America che vede la rivoluzione islamica scuotere le fondamenta del suo Paese, con l'ayatollah Khomeini che rovescia la corona dei Pahlavi e con essa il bimillenario trono del pavone.
Nel gennaio 1979, condannato all'esilio, il principe Reza si unisce al resto della sua famiglia: Marocco, Bahamas, Usa, Messico, Panama, Egitto, un'odissea per trovare un asilo sicuro. Quando, appena un anno dopo, suo padre muore al Cairo, la vecchia costituzione lo proclama Scià de facto. Da allora rimane tenacemente sulla scena internazionale come principale oppositore del regime teocratico-fondamentalista, agendo più come un costruttore di coalizioni che come un pretendente al trono e candidandosi a traghettare il suo popolo verso la democrazia costituzionale.
Con i fallimenti della Repubblica islamica, la monarchia deposta viene sempre più considerata come l'età dell'oro. E lui, sposato dal 1986 e padre di tre figlie, oggi è un leader maturo che piace ai giovani (stragrande maggioranza in Iran) e saprebbe come gestire la transizione verso un Iran democratico e laico.
Dopo 46 anni di esilio, come fa a mantenere una sintonia così forte con il suo Paese, l'Iran, e le nuove generazioni nate dopo la caduta di suo padre ed anche dopo la morte di Khomeini?
«L'esilio può separare le persone fisicamente, ma non può spezzare il legame d'amore con la propria patria. Ho dedicato la mia vita all'Iran. Sono rimasto profondamente legato al mio Paese attraverso un dialogo costante con iraniani di ogni generazione e ceto sociale, sia all'interno che all'esterno dell'Iran. Le giovani generazioni, in particolare, mi ispirano con il loro coraggio e la loro richiesta di libertà. Anche se il regime tenta costantemente di bloccare le nostre comunicazioni, rimango in contatto quotidiano con loro, che sono riusciti a preservare la nostra identità nazionale e hanno tenuto vivo il sogno di un Iran libero».
Come descriverebbe le attuali condizioni dell'Iran?
«L'Iran di oggi è una nazione in crisi economica, politica e morale. Il regime è debole e diviso. La corruzione, la repressione e il fanatismo ideologico hanno lasciato il Paese isolato e la popolazione impoverita. Ma sotto la superficie c'è anche la speranza: una popolazione resiliente che anela alla libertà, alla dignità e a un futuro migliore, mentre il regime è nel suo stato più debole, vulnerabile e instabile».
Recentemente i manifestanti, durante le proteste anti-regime, hanno invocato il suo
nome: Principe Reza, dove sei? Vieni in nostro aiuto!. Come risponde a questa chiamata?
«Sono commosso e onorato dalla fiducia e dall'affetto. Sento le loro voci e sto accanto a loro, non al di sopra di loro. Ho accettato la chiamata a guidarli attraverso questo cambiamento. La mia missione è sempre stata servire il popolo iraniano nella sua lotta per la libertà e continuerò a fare il possibile per sostenere una transizione pacifica ed inclusiva verso la democrazia».
Nei giorni scorsi, durante i negoziati di Roma, lei ha riaffermato di essere contrario sia ad un accordo tra gli Usa e la Repubblica islamica, sia al bombardamento dei siti nucleari iraniani. Quale via dovrebbe percorrere l'amministrazione Trump per impedire che il regime iraniano si doti della bomba atomica?
«Il popolo iraniano è la forza più potente per il cambiamento. Piuttosto che legittimare il regime attraverso nuovi accordi o rischiare una guerra, gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero sostenere le aspirazioni democratiche del popolo iraniano. La pressione sul regime dovrebbe essere accompagnata da una visibile solidarietà nei confronti di coloro che lottano per la libertà in Iran. Se i Paesi stranieri saranno costretti a ricorrere all'azione militare, Ali Khamenei e il suo regime di occupazione ne saranno i responsabili. Avranno trascinato la nostra nazione in guerra».
L'asse del Medio Oriente è in movimento: ai «Patti di Abramo» tra Israele e Paesi arabi potrebbero aggiungersi i «Patti di Ciro», con l'Iran. Uno scenario futuribile che pensa si potrebbe aprire nell'area in caso di cambio di regime a Teheran?
«Certo, un Iran democratico potrebbe svolgere un ruolo centrale nella costruzione della pace e della cooperazione regionale, anche con Israele e le nazioni arabe. L'idea degli Accordi di Ciro non è solo simbolica, ma riflette il profondo potenziale storico dell'Iran di tornare a essere una forza stabilizzante e un ponte tra le civiltà».
L'Europa quale vantaggio concreto trarrebbe dalla caduta della Repubblica Islamica?
«Otterrebbe un partner in Medio Oriente impegnato nella pace, nei diritti umani e nella cooperazione economica. Un Iran libero contribuirebbe ad arginare la migrazione forzata, a ridurre le tensioni regionali e ad aprire un vasto mercato di opportunità. Possiamo anche svolgere un ruolo cruciale nel contribuire a garantire il fabbisogno energetico dell'Europa. La caduta del regime non è solo nell'interesse degli iraniani, ma serve alla stabilità e alla prosperità globale».
Dopo la rivoluzione di Donna Vita e Libertà del 2022, in Iran la tensione rimane alta. Gli ayatollah parlano di estensione del conflitto ma tengono il freno tirato. Temono di dover distogliere forze importanti dall'apparato di repressione interna?
«La sopravvivenza del regime dipende dalla repressione interna. Un'escalation esterna indebolirebbe la loro presa in patria, dove il malcontento è già diffuso. L'esitazione è un segno della loro
fragilità. Il regime non può più fare affidamento sui suoi terroristi per procura. Khamenei si trova ora di fronte a una scelta: la resa o la guerra».
Pensa che le forze armate iraniane potrebbero svolgere un ruolo determinante per la caduta del regime, come avvenne nel febbraio '79 contro Shapur Bakhtiar, l'ultimo primo ministro di suo padre?
«Le forze militari e di sicurezza dovranno prendere una decisione cruciale quando il popolo si solleverà di nuovo con decisione. Il loro vero dovere è proteggere la nazione, non il regime. I segni di insoddisfazione e persino di defezione dal regime sono sempre più visibili. Continuo a chiedere loro di stare dalla parte del popolo, di diventare parte della soluzione e non strumento di repressione».
Lei è stato educato come principe, ha ricevuto una formazione militare e ha lavorato come leader politico. In quale veste futura si vede al servizio del suo Paese?
«Il mio obiettivo non è mai stato quello di rivendicare il potere, ma di aiutare il mio Paese a raggiungere la libertà, la democrazia e lo Stato di diritto. Mi vedo come una figura unificante e un servitore del popolo, che deve tornare a poter scegliere il proprio futuro».
Se verrà chiamato a guidare la transizione democratica, quali saranno le prime sfide?
«L'instaurazione della stabilità, la ricostruzione della fiducia nelle istituzioni e la garanzia di una sicurezza senza oppressione. Ma il lavoro più profondo sarà quello culturale: curare le ferite, promuovere l'unità e costruire un sistema politico che rifletta la volontà e la dignità e che offra prosperità e opportunità economiche a tutti gli iraniani».
Lei ha sempre detto che la Repubblica islamica è irriformabile e che la libertà del popolo passa solo dall'abbattimento del regime degli ayatollah...
«Dobbiamo distinguere tra regime e nazione. Molti funzionari pubblici, tecnocrati ed esperti servono il Paese, non l'ideologia. Una transizione di successo comporterà la salvaguardia delle istituzioni nazionali, la rimozione dell'apparato repressivo e la garanzia di responsabilità e riforme fondamentali. Possiamo perseguire la giustizia per le vittime di questo regime e allo stesso tempo un percorso di riconciliazione nazionale».
Juan Carlos di Spagna, Simeone di Bulgaria, Zahir Shah d'Afghanistan, Sihanouk di Cambogia: sovrani e capi di Stato tornati democraticamente alla testa delle loro nazioni dopo
l'esilio. C'è qualche statista a cui guarda con interesse?«Plaudo a coloro che sono tornati per servire le loro nazioni, a prescindere dal loro ruolo personale. La mia aspirazione è simile: aiutare l'Iran a progredire».
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