Il neo ottomanesimo è la definizione con cui si indica la concezione geopolitica in base alla quale la Turchia di oggi avrebbe una sorta di missione storica, un destino di grandezza che viene dal passato, a cui tendere. Riprendere il controllo, quantomeno in termini di egemonia politica e militare, di quelli che furono i territori e le nazioni sottomesse all’Impero Ottomano. Una vocazione a cui, da almeno un decennio, dopo aver dismesso i panni del moderato europeista, sta lavorando alacremente Recep Tayyip Erdogan, che anche per questo si è comunemente guadagnato il soprannome di «sultano». Al potere da oltre vent’anni, prima come premier e poi come Presidente della Repubblica, con poteri molto ampi conferitigli da una discussa riforma costituzionale, l’ex calciatore Erdogan ha regolato tutti i conti con gli oppositori interni e da qualche anno si è dedicato a una decisa proiezione esterna.
Molto di più di una mera suggestione, da qualche anno si è passati dalla teoria ai fatti come dimostrano le recenti vicende della Siria, la cacciata di Bashar al Assad e l’arrivo al potere dei ribelli di Hayat Tahrir al-Sham (Hts) guidati dal jihadista al Jolani.
La Siria che aveva un potere certamente autoritario ma laico si avvia a diventare un protettorato turco sotto il segno del radicalismo islamico.
All’apice della sua espansione, sotto il regno di Selim I, Solimano il Magnifico e Selim II, lo Stato ottomano giunse ad includere, tra diretta amministrazione e entità vassalle, un territorio vastissimo: dall’attuale Algeria alla penisola arabica, includendo Siria, Palestina, Egitto, Irak e anche un pezzo d’Europa, Grecia, Serbia, Bulgaria, minacciando Vienna e la Polonia.
Mustafa Kemal Ataturk, padre della Turchia moderna e laica, volle tracciare una netta separazione tra la Repubblica, fondata nel 1923, e il passato ottomano. Per decenni la Turchia tutelata dai militari si era uniformata a questa visione. Non così, Erdogan che ha progressivamente ripreso la tradizione dell’Impero facendone una nostalgia che alimenta la base ideologica del suo partito islamista della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) accreditando sé stesso come l’artefice di un risveglio.
In realtà, il termine neo ottomanesimo fu coniato alla fine degli anni Ottanta per definire le crescenti ambizioni geo-politiche della nuova Turchia, dopo la dissoluzione dell’Urss, ai tempi della presidenza di Turgut Ozal connotandosi inizialmente come un fenomeno accademico e giornalistico.
La consacrazione politica arriva con Recep Tayyip Erdogan che trova un teorico in Ahmet Davutoglu, suo primo ministro e prima ancora ministro degli esteri, un accademico approdato all’AKP che elabora l’idea di un recupero dell’eredità ottomano islamico e conia la formula della «profondità strategica».
L’idea è di fare della Turchia una potenza, prima regionale e poi globale, guida del mondo islamico sunnita, partendo da una marcata influenza su quelle che furono le province (Balcani, Medio Oriente, Asia Centrale).
I simboli sono fondamentali in questa narrazione, ecco perché Erdogan si reca spesso sulla tomba di Selim I detto il Ponderato, celebra la data del 29 maggio in memoria di quello che avvenne nel 1453 con la conquista di Costantinopoli ad opera di Maometto II. Quindi la scelta dirompente e carica di significati di riconvertire la basilica di Santa Sofia, patrimonio dell’Unesco, in moschea.
La vittoria in Siria dei jihadisti protetti e foraggiati da Ankara costituisce un tassello di pregio del mosaico di Erdogan che in passato aveva addirittura accarezzato l’idea di prendersi una parte di territorio siriano, magari la città di Aleppo, ricca di storia e fiorente nelle attività economiche. «I turchi sono gli amici più stretti del nostro popolo - ha dichiarato ad Al Jazeera il leader di Hts, Abu Muhammad al Jolani -. Traiamo vantaggio dalla loro esperienza e siamo certi che saranno al nostro fianco anche in futuro». Poco importa che i neovincitori abbiano affermato che le donne sono esseri biologicamente inferiori.
I risultati ottenuti in Siria sono molteplici e tutti importanti, Erdogan ha messo alle corde l’Iran sciita, eliminata la presenza e l’influenza russa, limitata la capacità di azione dei nemici curdi sui quali sta aumentando la pressione delle milizie filo-turche.
La Turchia attiva da tempo in Libia, nel Nagorno-Karabakh, in Bosnia-Erzegovina, in Albania, ora consegue il risultato strategicamente più importante. «Dopo Idlib, Hama e Homs l’obiettivo sarà Damasco», aveva detto il presidente turco nell’imminenza dell’attacco finale, facendo capire al mondo che le vere decisioni le prendeva lui.
In questo scorcio di 2024, Erdogan si consacra come «sultano»; a suo tempo, Silvio Berlusconi, dimostrando anche in questo caso una certa lungimiranza, aveva cercato di attrarlo nel campo europeo evitando, in quegli anni, la deriva autoritaria.
Questa vocazione è stata definitivamente accantonata, ora la Turchia vuole essere potenza in Medio Oriente, con capacità di proiezione in Africa (i turchi sono militarmente presenti in Somalia) e nei Balcani. Si ripresenta un antagonista storico dell’Occidente.
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