La politica di Dune specchio del presente

Con Dune la fantascienza si cala letteralmente nell'arena politica. Il potere qui a prescindere che sia gestito da uomini o da donne - è prima di tutto esercizio, o contenimento, della violenza

La politica di Dune specchio del presente
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La saga Dune è un manifesto mitopoietico per i costruttori di nuovi immaginari. Ma anche politico per le classi dirigenti di domani. Non a caso, alcuni tecno-libertari, da Elon Musk a Jeff Bezos, hanno citato in questi ultimi anni il capolavoro fantascientifico di Frank Herbert, pubblicato per la prima volta nel 1965. Il regista canadese Denis Villeneuve, trasformandolo in un colossal di successo mondiale, è riuscito laddove il surrealista cileno Alejandro Jodorowsky e il grande David Lynch non sono mai riusciti. Ha realizzato un film che produce, agli occhi di chi lo contempla, «gli stessi effetti allucinogeni dell'LSD».

Così, è entrato nella mente delle giovani generazioni portandole in un futuro tutto da riscrivere, anziché da immaginare. Perché a differenza del Signore degli Anelli di Tolkien, in cui la dimensione fantastica è dominante, con Dune la fantascienza si cala letteralmente nell'arena politica. Il potere qui a prescindere che sia gestito da uomini o da donne - è prima di tutto esercizio, o contenimento, della violenza. Del resto per Frank Herbert, la politica, insieme alla scrittura, era anche un fatto di militanza. Nato a nord di Tacoma, nello Stato di Washington, da genitori socialisti, viene cresciuto inizialmente tra battute di pesca e lunghe passeggiate nei boschi, dove conosce un nativo americano che diverrà suo mentore. Poi, all'età di trent'anni, si avvicinerà ai Repubblicani statunitensi mettendosi al servizio del partito, e avrà un'attenzione particolare per i grandi temi legati all'ambiente.

Questa epica del ritorno alla terra, mescolato ad una profonda e radicata cultura dell'indigenato, porterà Herbert a immaginare una nuova Apocalisse oscura, arabeggiante e futuristica, con fortissimi riferimenti etimologici alla cultura greco-romana (Atreo, Leto, Apollo). È la trama dello scrittore statunitense: un viaggio in un mondo lontanissimo, in un iperluogo galattico, dove le grandi case (cioè le grandi potenze) pianificano la corsa spaziale alla conquista di una spezia psichedelica nel mondo di Arrakis (dall'arabo ar-raqi, il danzatore; o al-Rqi, il cammello al trotto). Un deserto da attraversare, abitato da vermi delle sabbie e da un antico popolo, quello dei Fremen, che attende l'arrivo di un Messia. Paul Atreides, interpretato nel film di Villeneuve da Timothée Chalamet, sarà il giovane e carismatico capo di una venerabile famiglia ducale impegnata negli affari dell'Imperium - retto dalla sorellanza esoterica delle Reverende Madri Bene Gesserit - che indosserà gli abiti del guerriero e organizzerà una sorta di Jihad-interstellare (che successivamente si trasformerà in «una mattanza religiosa»).

La democrazia, spiega un personaggio di Dune, non è che un sistema di «sfiducia organizzata», dove i cittadini guardano con sospetto chiunque è al potere: la Casata Harkonnen, nel caso dei Fremen. Per Chani invece, come Villeneuve fedele al messaggio di Frank Herbert - ci suggerisce nel finale, sarà proprio il protagonista Paul Atreides. Perché prima della delusione, c'è la fabbrica dell'illusione.

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