Sono la migliore prova che davvero stiamo guarendo dal virus, ma sono anche la conferma che in questo paese non si è mai interrotta la produzione di sbandati e la libera circolazione di corde pazze. È vero che non vanno sottovalutati questi nuovi movimenti che tra poche ore scenderanno in piazza per dare fuoco al 2 giugno e che si vogliono intestare la rabbia italiana, che lanciano l'opa sulla collera di questo povero paese sfasciato. E però, guardateli e dite se non sembrano un segno di antica salute questi gilet arancioni trascinati dal generale (in congedo) Antonio Pappalardo, uno che a Palermo, nel 2011, candidato sindaco, si presentava già così: «In sei mesi eliminerò la mafia. Il simbolo del mio movimento me lo ha ispirato direttamente Dio a Gerusalemme».
Anche cromaticamente, sono una catastrofe di tinte e non rimandano ai pericolosi gilet gialli, quelli a cui Luigi Di Maio proponeva l'alleanza con il suo M5s, ma ricordano gli spostati che cercano il nuovo mondo, gli appannati che invocano la rinascita. A Milano, a piazza Duomo, dove domenica si sono radunati senza mascherina e in evidente stato «febbrile», hanno ripetuto la loro frase manifesto: «Non avremo pace finché non si saranno rotte le catene che ci opprimono per volontà dell'Europa, dei burocrati e delle multinazionali». Il loro simbolo è una chiave di violino con sotto la promessa «Si cambia musica». Sono eredi dei Forconi, quel movimento a trazione meridionale che nel 2013 bloccò per oltre un mese il trasporto di generi alimentari e che spaventò perfino i giornali americani. Erano agricoltori, pescatori, camionisti, tutti saldi nel chiedere allo Stato, mance, sgravi, prendere i politici a «forconate». Non si trattava che di pazienti zero: precedettero, di li a poco, l'esplosione del vaffa di Beppe Grillo. Anche allora si imbucò questo generale, in passato parlamentare, sottosegretario, accusato di golpe ma scagionato, e che oggi è per il ritorno alla lira, dell'idea che il coronavirus non esiste e che si possa curare con lo yoga, che le mascherine sono dannose, l'epidemia insomma come invenzione «per instaurare un nuovo ordine mondiale». A Milano, e non solo, è riuscito a generare il disordine organizzato e a reclutare antivaccinisti, cappucci neri, disoccupati senza cittadinanza, e purtroppo tanti disperati ognuno con la propria speciale frustrazione.
Di questa grande coalizione fanno parte le «Mascherine Tricolori», che da cinque settimane, nel silenzio, protestano di fronte a Montecitorio dove si sono tolti la mascherina che considerano un bavaglio di libertà. Nel loro caso, è giusto dirlo, il rischio è di vedere annegare richieste ragionevoli in questo stagno di teste matte. Ne fanno parte baristi, albergatori, tassisti, edili, che nulla hanno a che fare con i no vax, fanatici che sono nuovamente usciti dai sotterranei e che si stanno mimetizzando tra di loro. Le «Mascherine Tricolori» pretendono una sanatoria di tutte le multe comminate durante l'emergenza, lo stop alle tasse, regole meno stringenti e la caduta del governo Conte.
Sono distanti dal gruppo «Marcia su Roma», negazionisti che non credono nell'esistenza del virus, che sognano l'Italexit e stampare nuova moneta. «Marcia su Roma» è invece vicina a CasaPound che sempre sguazza nel rumore e nella contestazione e che, scherzo del destino, si mescola nella piazza, e nel furore, con «I coinvolti», gruppo vicino alla sinistra. Sempre a Milano, ad agitarli, c'erano esponenti locali del Pd scesi per protestare contro la gestione lombarda della sanità. Mai gli estremi erano stati tanto vicini. Ed è qui che volevamo arrivare.
In questa panna, dopo i mesi spaventosi e i prossimi che ci attendono, si monta il malessere di ciascuno.
A Roma, sabato, è prevista una manifestazione de «I ragazzi d'Italia», ultras di calcio (di Brescia) che hanno chiesto ad altri rivali ultras di mettere da parte le rivalità e di «protestare contro una politica che sta distruggendo il paese». Diciamolo. Nessuno crede alla loro eversione. Non è questo il vero pericolo. Sono però quegli esseri che abbiamo imparato a conoscere nel contagio. Animali «serbatoio» di un'Italia che può andare a male.
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