Addio a Pomarici, toga star che risolveva i casi

Ha inventato la linea dura sui sequestri, fatto luce sull'omicidio Calabresi e processato gli agenti Cia

Addio a Pomarici, toga star che risolveva i casi
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Un servitore dello Stato pronto a sfidare l'impopolarità per applicare la legge. Questo era Ferdinando Pomarici, per quarant'anni pubblico ministero a Milano, morto ieri mattina. Bello, atletico, un passato da portiere nel Napoli, era diventato uno dei primi magistrati mediatici, perché quel suo look rompeva la vecchia immagine un po' impolverata della giustizia degli anni Sessanta, e perché era consapevole che comunicare, esporsi pubblicamente, dialogare con la società era indispensabile per fare giustizia sul serio. Ma insieme a questo c'era in Pomarici un senso rigoroso della legge. Pomarici era un duro.

La prima vera sfida ai patemi dell'opinione pubblica dovette lanciarla negli anni in cui Milano era devastata dall'Anonima Sequestri, una piaga che sembrava non dovesse avere fine. Il procuratore capo Mauro Gresti, di cui Pomarici era un pupillo, affidò a lui le inchieste sui rapimenti. E Pomarici capì subito che l'unica strada era impedire che le famiglie pagassero i riscatti. Blocco dei beni immediato, per rendere improduttivo il business dell'Anonima. Venne attaccato brutalmente, uno dei leader della magistratura di sinistra, Giuliano Turone, lo accusò di «buttare fumo negli occhi dell'opinione pubblica», «la linea dura non funziona». Invece funzionò, e un poco per volta la piaga si estinse.

Pomarici passò ad occuparsi di terrorismo rosso, e anche su quel fronte dovette sperimentare - anche all'interno del palazzo di giustizia - la scomodità di certe scelte. Perché fu lui, a sedici anni di distanza, a risolvere un delitto che sembrava destinato a restare senza colpevoli: l'uccisione del commissario Luigi Calabresi, ammazzato nel 1971 al termine di una lunga campagna d'odio. Sulla morte di Calabresi si erano formulate teorie di ogni tipo, persino che fosse stato vittima dei neofascisti del Nar. Pomarici scoprì, come spesso accade, che la verità era la più semplice: Calabresi era stato ucciso da Lotta Continua, il gruppo che da anni lo indicava come assassino dell'anarchico Pinelli, e che aveva festeggiato la sua uccisione sulla prima pagine del proprio giornale. Ma nel frattempo i leader di Lotta Continua avevano messo giacca e cravatta, avevano fatto carriera nei giornali, nella politica, nel business. E in loro difesa si alzò un coro che accusava Pomarici di credere alle calunnie di un pentito, Leonardo Marino. Quando dopo la condanna definitiva l'esecutore materiale ammise le sue colpe, nessuno chiese scusa a Pomarici.

Era un uomo risolutamente di destra, e non amava le correnti organizzate delle toghe. Del Consiglio superiore della magistratura non si fidava, e verso alcune sue scelte ebbe parole di fuoco: come quando il Csm decise che nei pool antimafia i magistrati potessero restare solo otto anni, e poi dovessero cambiare settore, e Pomarici disse che si trattava di una idea «priva di ogni fondamento razionale», una «follia, una vicenda tipicamente italiana e kafkiana, che rischia di vanificare il ruolo della giustizia nella lotta alla mafia». Il Csm lo ricompensò pochi anni dopo negandogli la nomina a Procuratore della Repubblica di Milano, che sarebbe stato il coronamento della sua carriera, preferendogli il leader di Magistratura Democratica, Edmondo Bruti Liberati.

Da uomo dello Stato, pensava che lo Stato dovesse essere il primo a rispettare le regole: così quando si convinse che a rapire

l'imam-terrorista Abu Omar erano stati agenti della Cia con l'appoggio degli 007 italiani non esitò a incriminarli e a portarli a giudizio, in quello che è stato - fin quando non decise di farsi da parte - il suo ultimo grande processo.

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