L'hanno chiamata Djamaa el Djazaïr, Grande Moschea di Algeri. Dietro quel nome - all'apparenza banale - si celano una maestosità architettonica e un intreccio finanziario, geopolitico e religioso in cui Pechino gioca da protagonista. La costruzione di Djamaa el Djazair è stata, infatti, interamente appaltata ad aziende cinesi. E questo nonostante le politiche del pugno di ferro con cui Pechino stronca le recriminazioni della minoranza islamica uighura nei territori dello Xinjiang. Intrecci e cinismi con cui deve fare i conti anche l'Italia. Soprattutto dopo gli accordi del 2022/2023 per sostituire parte del gas di Mosca con quello di Algeri e l'avvio di quel piano Mattei che deve garantire al nostro paese un ruolo da protagonista nel Maghreb e nel resto d'Africa. Due scelte andate di pari passo con quella revoca del Memorandum sulla Via della Seta che rende inevitabilmente più complessi i rapporti con Pechino.
Ma partiamo dai simbolismi, ovvero dalle dimensioni di Djamaa el Djazair. Inaugurata ufficialmente solo nel marzo del 2024, benché aperta già da cinque anni, la Grande Moschea affacciata sul lungomare di Algeri racchiude un'aerea di preghiera di 22mila metri quadrati, può accogliere 120mila fedeli ed è sovrastata dal minareto più alto del mondo con una guglia da 265 metri. Anche il resto è da record. I 22mila metri quadrati coperti dall'edificio, la sua biblioteca da un milione di libri e il suo parcheggio con 7mila posti auto fanno di Djamaa el Djazair la terza moschea più grande del mondo dopo quelle della Mecca e della Medina due luoghi di culto impossibili da superare in grandezza senza mancar di rispetto all'Arabia Saudita. Dietro questo monumento all'Islam, finanziato da Algeri con oltre un miliardo di euro, si cela il tentativo di sanare le fratture con i musulmani più fondamentalisti sfociate, tra il 1992 e il 1995, in una guerra civile tra militari algerini e gruppi jihadisti costata oltre 200mila vite umane. Per quanto riguarda una Cina allergica all'Islam e ad ogni altro credo religioso c'è invece il tentativo di conquistare un ruolo strategico in un Maghreb rimasto fin qui al margine delle sue strategie di penetrazione politica ed economica dell' Africa. Un ruolo che la porta in rotta di collisione con quel piano Mattei dell'Italia che ha nel Maghreb uno dei tavoli operativi.
Da questo punto di vista la storia del progetto Grande Moschea può esserci utile per comprendere la capacità cinese di marginalizzare l'Europa. Per quanto progettata da uno studio architettonico tedesco nel 2008 e affidata ad una società francese la costruzione della Moschea è finita nelle mani di Cscec (China State Construction Engineering) il colosso di stato cinese che negli ultimi decenni ha costruito le più importanti infrastrutture firmate dal Dragone ai quattro angoli d'Africa. In Algeria la metodologia è stata la stessa seguita nel resto del «continente nero». Benché una buona parte dei costi sia stata pagata da Algeri la Cscec ha importato dalla Cina ben 10mila delle 17mila maestranze. Reiterando così quell'economia circolare che riserva ben pochi posti di lavoro agli africani mentre permette il rientro in Cina, sotto forma di salari, dei capitali investititi in Africa. La parte del leone giocata dalla Cscec in un progetto avviato da ditte francesi e tedesche la dice lunga anche sulla progressiva uscita di scena dell'Europa dalle dinamiche del Maghreb. Un Maghreb dove Italia ed Eni devono far i conti con una Cina pronta a tutto per mettere le mani su petrolio e gas.
Al punto da spingerla a rinnegare le linee guide di una politica interna che per mettere a tacere le minoranze islamiche degli Uighuri della provincia dello Xinjiang prevede non moschee, ma l'internamento e la deportazione di milioni di musulmani.
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