Si chiamano cure palliative dal latino pallium, mantello, e dal verbo palliare, che significa avvolgere con il mantello e così attenuare il dolore e la fatica. La definizione in italiano non è di immediata comprensione, come sottolineano coloro che ogni giorno si prendono cura dei malati inguaribili o terminali. Non sono la soluzione a tutti i mali, ma aiutano il malato e coloro che gli stanno intorno a non desiderare la morte.
Eppure, come dimostra il rapporto al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 38 del marzo 2010 (dati ufficiali fino al 2017), gli allarmi ricorrenti della Federazione nazionale delle cure palliative e delle associazioni di volontariato che le hanno «inventate» quando ancora la sanità pubblica non le conosceva, da Vidas a Fondazione Floriani a Ant, la rete è carente, anzi in alcune regioni addirittura in peggioramento, con disomogeneità anche tra provincia e provincia.
Mancano le cattedre, i medici e le risorse finanziarie sia per l'assistenza domiciliare che negli hospice. Nel 2012 sono stati pubblicati i decreti per istituire cinque master universitari in formazione e qualificazione in cure palliative e terapia del dolore, nel 2018 l'insegnamento è stato introdotto nei corsi di laurea, ma al Miur è ancora in corso di definizione il percorso di insegnamento in cure palliative. «Poiché non ci sono specializzazioni, è ovvio che radioterapisti, internisti, oncologi vogliono lavorare in ospedale. Poi, eventualmente, diventeranno medici palliativisti. C'è una carenza di medici e così qualsiasi piano viene disatteso perché ci sono zone in cui i medici mancano» spiega Raffaella Pannutti, presidente della Fondazione Ant, Assistenza nazionale tumori, impegnata nell'assistenza domiciliare.
Ma l'allarme risuonato nel rapporto al Parlamento del gennaio scorso riguarda anche gli hospice: su 170mila persone che muoiono di tumore, solo 40mila sono assistite in regime di assistenza domiciliare integrata e hospice e alla fine 135mila persone non ricevono la corretta assistenza. «Il nesso tra la carenza di cure palliative e la richiesta dei malati di morire c'è ed è indiscutibile. Sono la solitudine e il dolore, del malato e della famiglia, a spingere spesso a chiedere di morire» dice ancora Pannutti. E aggiunge: «Con un controllo del dolore e un sostegno ai familiari, le richieste di morire sono poche o nulle. Ho chiesto diverse volte ai nostri medici e mi rispondono che non succede mai». Come conferma un recente rapporto della Federazione nazionale cure palliative, lo spettro di patologie a cui applicarle è ampio: malattie neurologiche, muscolari, oncologiche, metaboliche, cromosomiche, sindromico- malformative, infettive, post anossiche.
Non è un grido di dolore che arriva solo dalla Chiesa o dalle associazioni pro life, come quella di Antonio Brandi, presidente di Pro Vita e Famiglia: «È lecito pensare che dietro a queste richieste di suicidio ci sia una cultura che spinge a risparmiare ancora di più sulla sanità. Il suicidio va prevenuto, non aiutato». Padre Bartolomeo Sorge, gesuita già direttore de La Civiltà cattolica, punto di riferimento dei progressisti, ha affidato il suo sconcerto a un tweet: «Cooperare a un suicidio - anche se lo Stato non lo punisce - rimane sempre un attentato immorale alla vita e alla convivenza».
E il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, ha ripetuto che alla base della diffusa volontà di togliersi la vita si cela un «cinismo economicista» e ha chiesto di rafforzare il ricorso alle cure palliative, «la cui importanza è cruciale nell'offrire il necessario sollievo alla sofferenza del malato».
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