Le prove fornite da Washington sono state ritenute «sufficienti»: per il ministero della Giustizia canadese, la direttrice finanziaria di Huawei e figlia del fondatore del colosso tech cinese, Meng Wanzhou, avrebbe effettivamente fatto affari con l'Iran aggirando le sanzioni statunitensi. Via libera, dunque, da Ottawa all'estradizione della manager negli Stati Uniti. L'udienza è fissata per il prossimo 6 marzo a Vancouver. Dopo tre mesi di libertà vigilata in Canada, Meng si prepara a essere processata dai giudici americani, nel pieno dello scontro tra i governi di mezzo mondo in testa gli Usa, ma anche parecchi Paesi europei e Huawei, accusato di spiare per conto del regime di Pechino e per questo considerato una minaccia per la sicurezza pubblica. La Cina ha detto di aver presentato una protesta formale nei confronti del Canada e ha definito il caso «un grave incidente politico». «Sollecitiamo ancora gli Usa a ritirare la richiesta di estradizione e chiediamo al Canada il suo rilascio immediato», riporta una nota del ministero degli Esteri cinese. Non è chiaro quando la donna varcherà il confine americano, data la lentezza del sistema giudiziario canadese e la possibilità di fare appello nei confronti della decisione.
La donna, 47 anni, è la primogenita di Ren Zhengfei, fondatore e presidente del gigante delle telecomunicazioni nato a Shenzhen. Entrata in azienda come segretaria a 21 anni, è arrivata a coprire una delle posizioni di punta. Lo scorso 1° dicembre, su richiesta delle autorità statunitensi, è stata arrestata a Vancouver, dove viveva dal 2001 insieme alla sua famiglia. L'accusa è di frode: tra il 2009 e il 2014 avrebbe intrattenuto scambi commerciali con Teheran attraverso una società registrata a Hong Kong e controllata da Huawei, Skycom, di cui Meng è stata in passato membro del direttivo e poi presidente.
Nel frattempo negli Usa i guai legali per il colosso cinese sono raddoppiati: in un filone di indagine separato, le autorità statunitensi hanno accusato l'azienda di furto di segreti commerciali ai danni della multinazionale T-Mobile per una tecnologia impiegata negli smartphone. Le accuse sono state negate in toto da Huawei, così come i timori su una sua collaborazione con il governo cinese. Ieri attraverso i suoi avvocati la direttrice finanziaria ha ribadito di essere innocente e ha definito le accuse «politicamente motivate» e il comportamento degli Stati Uniti «un abuso di potere». In una nota il Canada ha sottolineato di essere un Paese «governato dallo Stato di diritto» e che la decisione di estradare Meng è arrivata «dopo un accurato e diligente riesame del caso».
Anche Ren, numero uno della società che l'anno scorso ha superato Apple nella vendita di smartphone e che sta sviluppando la nuova rete di connessione 5G in molti Paesi tra cui l'Italia, ritiene che il processo alla figlia sia politicamente motivato e che Huawei stia facendo da capro espiatorio nella guerra commerciale tra Washington e Pechino. In una rara intervista concessa a metà febbraio alla Bbc, Ren ha detto che «in nessun modo gli Stati Uniti riusciranno a schiacciarci, il mondo non può fare a meno di noi perché siamo i più avanzati». Il dibattito sulla sicurezza o meno delle infrastrutture firmate Huawei è in corso anche in Italia, dove il gruppo sta costruendo la rete 5G a Milano e nell'area di Bari-Matera.
Negli Usa è atteso a breve il verdetto di Trump sulla faccenda: il presidente americano potrebbe emanare un ordine esecutivo per limitare la diffusione dei prodotti Huawei nel Paese. E allora il processo a Meng si svolgerebbe in un clima ancora più avvelenato.
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