Cosa ci porterà il futuro, vivremo in un mondo più verde, in città coperte da alberi e autostrade di fiori dove svolazzano le api, orti urbani sui tetti e fattorie sull'acqua o saremo sommersi da un mare di plastica e rifiuti? La narrazione e la realtà: potrebbe essere questo nel grande libro della sostenibilità il titolo del capitolo che riguarda il 2020, annus horribilis della pandemia.
A parole tutti dicono di volere un mondo più verde, ma i dati parlano spesso un'altra lingua. Ogni italiano (neonati compresi) ogni anno si trova con 50 chilogrammi di confezioni di prodotti della spesa da smaltire. E se secondo quelli del Boston Consulting Group tre consumatori su quattro sarebbero disposti a pagare di più per un prodotto dal packaging sostenibile, la realtà rilevata dall'Osservatorio Immagino di GS1 Italy ci dice che la scelta è assai limitata: solo il 6,2 per cento ha un confezione completamente riciclabile. Con la classifica dei virtuosi che a sorpresa è condotta dalle acqua minerali, le quali in toto dichiarano le loro confezioni «totalmente» o «largamente riciclabili». La pandemia è un altro esempio. Perché nonostante la narrazione, gli animali che durante il lockdown si sono ripresi gli spazi cittadini e l'aria più pulita (in Italia il livello di PM10 si è ridotto del 25 per cento e di biossido di azoto del 49 per cento, ma solo temporaneamente) in questi otto mesi si è anche assistito a un grande ritorno: la plastica usa e getta, che a dircelo solo un anno fa avremmo trasecolato.
Ce lo dice l'Agenzia Europea dell'Ambiente che senza mezzi termini ci spiega come le misure post Covid hanno avuto «un effetto significativo» sul suo utilizzo. Sul banco degli imputati ci sono prima di tutto gli indispensabili Ppe, i dispositivi di protezione personale: mascherine, guanti, camici, contenitori per gel e alcool. Solo nei primi mesi della pandemia secondo l'Oms nel mondo sono stati consumati 89 milioni di mascherine, 76 milioni di guanti e 1,6 milioni di occhiali protettivi.
Ma non è solo questo: nel giro di poche settimane il packaging si è allargato a dismisura occupando ambiti in cui era solo parzialmente utilizzato. Pensiamo a tutto il mondo della ristorazione, passato, in parte o in toto, dalla perfomance «live» alla consegna a domicilio o all'asporto. Con ogni singola porzione, fosse anche una polpetta per aperitivo, ingabbiata nel sua bravo contenitore. Intanto caffè e bevande al bar sono rinchiuse in bicchieri con tappo da prendere e portare via, manco fossimo in un telefilm di Csi. I buffet negli alberghi? Si sono trasformati in un asettico banco di buste incellophanate che fanno tanto anni 70, quando ciò che era confezionato era più buono, o comunque più sano e sicuro.
Il tutto con buona pace degli obiettivi fissati dall'Unione europea per la riduzione dell'uso di plastica. Dopo il bando dei sacchetti non riciclabili al supermercato, qualcuno forse ricorda che piatti, posate e cannucce monouso dovrebbero scomparire dai banconi del bar a partire dal 2021. Ricordatelo quando buttate il cappuccio del vostro caffè ristretto preso in take away.
La Corte dei conti Ue ha già messo le mani avanti, sostenendo che l'Ue non raggiungerà gli obiettivi fissati per il riciclaggio degli imballaggi di plastica per il 2030 55% - a meno che i Paesi dell'Ue non invertano la rotta aumentando i tassi di recupero. Il che sembra al momento altamente improbabile.
Il calo del prezzo del petrolio dovuto alla riduzione dell'attività economica globale ha infatti reso la produzione di plastica da materiale «vergine» a base fossile molto più economica della produzione da plastiche riciclate. Insomma se la narrazione vede un futuro verde, potrebbe trattarsi di un assai reale - mare di plastica.
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