La distinzione, da un punto di vista canonico, tra dimissioni e rinuncia; la necessità di avere una legislazione sul Papa «impedito», l'efficacia del documento sulla rinuncia che Bergoglio ha firmato e consegnato. Il cardinale Gianfranco Ghirlanda, gesuita, uno dei massimi canonisti, già Rettore della Pontificia Università Gregoriana, illustra al Giornale l'importanza di un simile testo depositato da Francesco. E fa riferimento ai precedenti che si sono avuti con Pio XII, Paolo VI e Giovanni Paolo II.
Eminenza, che significato ha il testo firmato da Francesco sulla sua possibile rinuncia?
«La questione è piuttosto complessa. Il Papa si è riferito ad un documento da lui firmato di rinuncia in caso di impedimento medico' quando il cardinale Bertone era segretario di Stato. Il riferimento è a un problema di salute nel quale il Papa dovesse trovarsi, così grave che gli impedisca di governare. Il problema è che non c'è una norma che regoli l'impedimento della sede della diocesi di Roma. Si ha una legge speciale per la sede vacante, ma non c'è una legge sulla sede impedita».
Occorre distinguere tra rinuncia e dimissioni?
«Per essere precisi, non si parla di dimissioni da parte del Papa, ma di rinuncia. Quella di Benedetto XVI è stata una rinuncia compiuta nella pienezza delle sue facoltà psichiche, in base al canone 332, paragrafo 2, fatta liberamente e annunciata pubblicamente. Papa Francesco invece fa riferimento a una rinuncia che diventerebbe efficace nel caso in cui dovesse cadere in una malattia che gli impedisca il governo. Il problema è: chi dichiara che il Papa si trova in una situazione di impossibilità di governare? Nessuno può deporre il Papa, neanche i cardinali».
Ci sono stati casi simili in passato?
«Si ha un primo caso di lettere preventive di dimissioni con Pio XII. Dopo il crollo del fascismo, c'era la minaccia che Hitler avrebbe potuto invadere il Vaticano. Papa Pacelli - su testimonianza del segretario di Stato Domenico Tardini - avrebbe firmato una lettera di dimissioni nel caso in cui fosse stato deportato dai nazisti, per cui diceva Se mi rapiscono, porteranno via il cardinale Pacelli e non il Papa'. Anche Paolo VI aveva scritto due lettere: una di rinuncia e l'altra indirizzata al segretario di Stato di allora in cui lo pregava di riunire i cardinali presenti a Roma e di esortarli ad accettare la sua rinuncia al ministero petrino. Infine, anche Giovanni Paolo II scrisse un documento di rinuncia nel 1989, disponendo che ad esso si sarebbe dovuto dare esecuzione in caso di infermità che si presumesse inguaribile e di lunga durata e che impedisse di esercitare sufficientemente le funzioni o nel caso di altro grave impedimento che fosse di ostacolo all'esercizio dello stesso ministero. Rinuncia che avrebbe dovuto essere accettata e resa operante dai cardinali preposti ai dicasteri della curia romana e dal cardinale vicario di Roma. In base al can. 221 del codice di diritto canonico del 1917, non si sarebbe dovuto richiedere l'intervento dei cardinali».
È giusto parlare di Papa emerito?
«Io sostengo che sarebbe meglio parlare di vescovo di Roma emerito. Comunque, qualsiasi sia il titolo che si dà, l'importante è che sia chiaro che si ha un solo Papa».
È giunto il momento di avere una legislazione chiara?
«Sarebbe opportuno, almeno si saprebbe cosa fare con chiarezza in una tale circostanza. Dal mio punto di vista, ci dovrebbe essere una équipe di medici, sia della Santa Sede che non, che convergono nel parere che effettivamente la situazione in cui si trova il Santo Padre è irreversibile.
I cardinali - almeno quelli che si trovano a Roma - si dovrebbero riunire e sulla base del parere di tali medici, dichiarare che il Papa non può più governare. Di conseguenza verrebbe indetto il Conclave. Sarebbe da determinare anche chi sceglie i medici e con quali criteri».
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