Assange resta nel limbo. Londra rinvia ancora

I giudici chiedono precise garanzie agli Stati Uniti. Se non saranno assicurate, via libera al ricorso

Assange resta nel limbo. Londra rinvia ancora
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L'ultima carta di una partita lunghissima che potrebbe consentire a Julian Assange di sfuggire all'estradizione negli Stati Uniti - che da quasi 15 anni danno la caccia al giornalista australiano e cofondatore di WikiLeak per aver diffuso documenti top secret del Pentagono e del Dipartimento di Stato contenenti rivelazioni imbarazzanti - la gioca l'Alta Corte di Londra consentendo ad Assange di presentare un nuovo ricorso contro l'estradizione. Contrariamente a quanto accaduto in primo grado, dunque, ci potrebbe essere un estremo appello di fronte alla giustizia britannica per cercare di evitare la consegna alle autorità americane. Oltreoceano il giornalista 52enne - incriminato con 18 capi di accusa per aver pubblicato, a partire dal 2010, circa 700mila documenti militari e dispacci diplomatici riservati di Washington denunciando anche abusi commessi dalle forze armate americane in Iraq e Afghanistan - rischia in teoria fino a un massimo di 175 anni di carcere. Se fosse stato confermato il «no» pronunciato in primo grado, invece, per Assange sarebbe scattato il termine massimo di 28 giorni per l'estradizione effettiva negli Usa, anche in presenza di un tentativo di ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo.

I giudici inglesi, invece, hanno giudicato non infondate le argomentazioni della difesa sui timori per la sua vita e hanno dato al governo di Washington tre settimane di tempo per fornire ulteriori garanzie sul fatto che, se estradato, i diritti del giornalista saranno rispettati: in particolare che potrà godere del Primo emendamento della Costituzione americana che tutela la libertà di espressione e che non subirà pregiudizi durante il processo o la sentenza per la sua nazionalità australiana. Le autorità americane dovranno soprattutto assicurare quelle inglesi che, in caso di condanna, Assange non rischierà la pena di morte. Il prossimo 20 maggio è stata fissata l'udienza per stabilire se gli Stati Uniti hanno intenzione di soddisfare queste richieste. Se ciò non avverrà potrà essere presentato un nuovo appello e comincerà un altro processo nel Regno Unito. Dal 2019 l'attivista australiano è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, a Londra, senza essere stato sottoposto a un processo che lui vorrebbe fosse celebrato nel Regno Unito, non negli Stati Uniti, dove è considerato una sorta di nemico pubblico numero uno e in quanto tale destinato ad una condanna pesantissima. Le autorità americane stanno facendo di tutto per giudicarlo in patria perché - diffondendo documenti riservati, in violazione del National Espionage Act, la vecchia legge sullo spionaggio americana - Assange ha «messo a rischio delle vite». Questo hanno sostenuto lo scorso 21 febbraio in aula gli avvocati statunitensi per convincere i giudici di Londra a concedere l'estradizione dell'attivista accusato di essere andato oltre i limiti del giornalismo. Ora l'ennesimo rinvio fa intravedere un nuovo spiraglio per il cofondatore di WikiLeak.

La moglie di Assange, Stella, trova «assolutamente bizzarra» la sentenza. «La mia impressione - spiega - è che la Corte si stia annodando per trovare la possibilità di scaricare le responsabilità sul governo degli Stati Uniti e invitarlo a contraddire il proprio caso così da rinunciare all'estradizione.

Credo che la domanda giusta sia: perché non fate cadere le accuse? Julian è stato in carcere per quasi 5 anni. Questo caso non serve ad altro se non a intimidire i giornalisti in tutto il mondo. Non solo qui, non solo negli Usa».

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