Una faida interna alla Procura di Milano, uno scontro tra colleghi mossi da inimicizie personali: questo è il ritratto che ieri Fabio De Pasquale (nella foto), procuratore aggiunto nel capoluogo lombardo, dà della vicenda che lo ha portato sul banco degli imputati davanti al tribunale di Brescia. De Pasquale è accusato di omissione d'atti d'ufficio per avere tenuto nascosti alle difese i documenti e le chat che demolivano la credibilità del suo supertestimone nel processo Eni, l'avvocato Vincenzo Armanna. Dice in sostanza De Pasquale: Armanna non era un teste chiave, quei documenti erano irrilevanti, «un polverone». Allora perchè il pm Paolo Storari, anche lui della Procura di Milano, insistette a lungo perchè venissero presi in esame? Perchè ce l'aveva su con me, dice De Pasquale: «Quelle chat non portavano a nessuna verità. Io credo che Storari mi fosse ostile da tempo, da quando, nel novembre del 2018, dopo essersi dato molto da fare per entrare nel mio dipartimento, a un certo punto mi portò una richiesta di misura cautelare che gli dissi di ritenere eccessiva. Se la prese moltissimo». Che vicende così delicate venissero governate da umori e dissapori risulta quasi inverosimile anche al giudice Roberto Spanò, che tra poche udienze dovrà pronunciare la sentenza. E che alle spiegazioni di De Pasquale si mostra quasi incredulo, «qual è il problema se un pm ha degli elementi che possono portare a una verità nel processo? Il fatto che la Procura debba marciare compatta?». Non è una giornata facile, per De Pasquale. Quando parla delle mail con cui Storari chiedeva di indagare su Armanna e sulle sue manovre le definisce «il nostro calvario, la nostra storia criminale»; il rapporto della Finanza che raccoglieva le chat di Armanna era «un'accozzaglia di congetture per distruggere la credibilità di Armanna a poche udienze dalla fine del processo». De Pasquale accusa Storari di avere «violato il principio di lealtà tra colleghi» e di «ingiustificata ingerenza in un processo in corso». Storari, per odio personale, sarebbe diventato uno strumento del complotto che doveva servire a salvare i vertici dell'Eni. Peccato che quei vertici fossero innocenti, e che l'esistenza del complotto sia stata poi esclusa dalla stessa Procura.
La questione è: quei documenti avrebbero influenzato l'andamento del processo? De Pasquale cerca di minimizzarne la rilevanza, «l'architrave del processo per me erano i documenti e i soldi, non le dichiarazioni di Armanna», «c'erano 500 milioni di dollari movimentati in contante», dice. Ma poche udienze fa il giudice che celebrò il processo Eni, Marco Tremolada, è venuto in aula a dire che se quelle carte fossero state depositate, assolvere gli imputati sarebbe stato molto più facile.
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