«Tua!». Dicevamo tutti così. Appena ne avvertivamo il brontolare in distanza. Appena ne scorgevamo le forme. «Tua!». All'esclamazione seguiva una toccata veloce di dita su corpo altrui. Qualsiasi parte. L'importanza del momento imponeva velocità; e la velocità causava approssimazione. In gioco c'era molto: un futuro sereno. La Prinz portava sfiga, che diamine. Roba seria. Non c'era tempo da perdere. Bisognava tutelarsi. Se poi era verde, la sfiga raddoppiava. Se poi a bordo c'erano delle suore, la sfiga triplicava e allora s'imponeva il rafforzativo: «Tua! Senza ritorno». Onde evitare pericolose toccate di rimando. Passata l'emergenza, si scoppiava a ridere.
Ridevano meno i proprietari. Ignari per mesi, a volte anni, di aver acquistato un sortilegio automobilistico fin quando il compagno di scuola del figlio si rifiutava di salirci, «no, no, grazie signore, torno a piedi», «ma sono venti chilometri?», «fa niente, signore», «ma cos'ha il tuo amichetto?», «nulla papà, è solo che...». È solo che la Prinz portava sfiga. È solo che da tutti noi la Prinz veniva ingiustamente vissuta come una non macchina, un qualcosa, un pericolo, un oggetto nato storto che, se non eravamo pronti a tutelarci, aveva la capacità di rovinarci l'intera giornata. È solo che mentre la esorcizzavamo e ridevamo c'era gente che l'aveva scelta, speso soldi, ordinata, attesa e adesso era costretta a parcheggiarla sotto casa guardandosi circospetta attorno sperando che qualche vicino non la facesse spostare.
Era l'Italia dei primi anni Settanta, era l'Italia degli ultimi adolescenti spensierati, era una gran macchina la Prinz. Solo che a noi sembrava un fumetto. Avrebbe potuto tranquillamente circolare per le strade di Paperopoli senza che nessun disegnatore della Disney avesse a che dire. Gastone forse sì, Gastone non l'avrebbe mai e poi mai guidata, ma Paperino... Paperino l'avrebbe comprata per sbaglio, magari osservandone da lontano, molto lontano, la calandra e immaginandola una fuoriserie americana.
In fondo, la Prinz era nata proprio così: imitando, in versione bonsai, una tipica macchinona a stelle e strisce. La NSU, storica Casa tedesca poi fagocitata a metà anni Settanta dal gruppo Volkswagen, sul finire dei Cinquanta aveva pensato di mettere a frutto la propria grande abilità nel cambiare produzione. In neppure mezzo secolo era infatti felicemente passata dal costruire macchine per cucire a realizzare macchine da guidare. Il tutto, dedicandosi anche alle biciclette; fra gli acquirenti di quest'ultime, due signori pieni di soldi e di iniziativa, Herr Daimler ed Herr Maybach, futuri tycoon automobilistici, quasi un segno del destino. Dopo le due ruote a pedali erano arrivate le due ruote a motore. Con queste, la NSU avrebbe persino conquistato dei mondiali e il record di velocità, 340 km/h. Fatto sta, in Europa, passata l'ebbrezza del Dopoguerra, i rincari del greggio stavano indicando una via obbligata al settore automobilistico: servivano auto piccole, leggere e risparmiose alla voce consumi. In Germania, come in Inghilterra, era fiorente l'industria delle micro vetture di derivazione motociclistica. La NSU, eclettica come sempre, e che fra le due guerre aveva prodotto anche auto, decise di realizzare una sua vetturetta risparmiosa, dotandola però di comfort tipici delle auto più grandi e con una linea presa in prestito dalla sorelle maggiori. La Prinz. Solo che i progettisti esagerarono, ispirandosi volutamente nelle forme alle auto americane. Col motore 600 via via cresciuto fino a 1200 cc, le prime versioni che in piccolo facevano il verso alle sorelle maggiori statunitensi non diedero molto nell'occhio. Anzi, le Prinz erano apprezzate per il consumo, 20 km con un litro, e la dotazione decisamente superiore alle rivali della stessa categoria di prezzo e cilindrata (Fiat 500 e 850, Simca Mille): sedili reclinabili, vani porta oggetti, specchietti esterni, orologio, bloccasterzo e, soprattutto, i quattro comodi posti. Senza contare il trattamento nordico a cui veniva sottoposta la scocca; mentre le italiane, non solo le piccole, si sbriciolavano in ruggine, la Prinz restava integra. In tutti i sensi inossidabile. Per dire della sua bontà progettuale, in America, un tizio originale e coraggioso e avventuroso che non aveva nulla a che vedere con Paperino e i fumetti, l'astronauta John Glen, il primo americano nello spazio, si accorse subito che la tedeschina era magica. A chi gli chiedeva per quale diavolaccio di un motivo, lui che era un Rambo dei cieli e della stratosfera, lui che fino a pochi mesi prima viaggiava come gli altri astronauti sulle Corvette d'ordinanza, si fosse comprato una Prinz, rispondeva serafico: «Fatti i cavoli tuoi». Anni dopo, allo scrittore Tom Wolfe avrebbe però rivelato: «È che avevo i figli appena iscritti al college, costavano, e ogni settimana dovevo fare avanti e indietro con la base Nasa di Langley. Erano centinaia e centinaia di miglia. La Prinz non consumava niente, era affidabile e comoda».
Tutto bene. Tutto bello. Solo che un giorno arrivò la quarta serie. Come sempre liberamente ispirata ai vetturoni a stelle e strisce. In questo caso fu presa a modello la Chevrolet Corvair. Quel giorno, purtroppo, nacque ufficialmente «Tua!». Le linee a vasca della Corvair, una volta rimpicciolite, la rendevano buffa più che elegante. «Tua!» sbarcò in Italia in un mese non meglio precisato degli anni Sessanta. Un capostazione del Brennero, osservando transitare i treni merci carichi di bisarche con sopra la tedeschina, si accorse che novanta modelli su cento erano di color verdone. Può sembrare un futile dettaglio, una trascurabile sciocchezza cromatica. Non lo è. È l'inizio di tutto. Del dramma personale di ogni acquirente della Prinz verde. Agli italiani piaceva quel colore, era elegante, e in fondo la piccolina nasceva come vetturetta di classe. Per un po' andò tutto bene, poi le Case italiane iniziarono a scodellare nuove forme più alla moda e la Prinz all'improvviso apparve meno elegante e più buffa, meno di classe e più fumetto. Tutto prese a degenerare e si cominciò a ricamare su alcuni suoi difetti. Che di bocca in bocca, di «Tua!» in «Tua!», divennero enormi. La Prinz aveva da sempre il pregio dello sterzo leggero? Ora a causa di esso non stava in strada. La Prinz aveva il motore posteriore (come la 500 e la Simca)? Ora si diceva che in caso di scontro frontale avrebbe provocato un'esplosione nucleare. Si narra che la diceria che portasse sfortuna, oltre alle forma e ai passa parola, fosse legata alla posizione della batteria: era nascosta sotto i sedili. Vicino passava la marmitta, poco dietro c'era il carburatore.
A causa dei ritorni di fiamma era capitato che prendesse fuoco. Leggenda? Scaramanzia? Goliardia? Ormai non ha più importanza. Conta altro invece: una vecchia Prinz oggi vale oro. Ma non è «Tua!». Che sfiga.Benny Casadei Lucchi
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