Autonomia e flat tax, il do ut des di Matteo

Autonomia e flat tax, il do ut des di Matteo

Il prima. L'altro ieri, nel corridoio dei passi perduti, quando ancora Giuseppe Conte non aveva creato un vulnus nei rapporti con la Lega dimissionando, nei fatti, il sottosegretario Armando Siri, Stefano Candiani, braccio destro di Matteo Salvini al ministero dell'Interno, congetturava così sul difficile rapporto con i grillini: «Ma se non succede nulla fino alle europee è difficile immaginare che si possa votare a luglio. Ad ottobre? In Italia in autunno si è votato solo nel 1913 Il problema semmai è come riusciremo a fare la finanziaria! L'unica variabile si presenterebbe se i 5stelle andassero sotto il 20%. A quel punto esploderebbero e, senza un governo, le elezioni anticipate sarebbero automatiche. Altrimenti vedremo che altro si potrà fare con loro. La posizione che hanno assunto sulle Province è cialtronesca. Per non parlare della richiesta di dimissioni di Siri per un avviso di garanzia: se passa questo precedente ci faranno fare la fine dei dieci piccoli indiani di Agatha Christie».

Il dopo. Sono le 20 e il premier ha annunciato da un'ora il siluramento di Siri. Candiani che pure non è tipo da perdere la calma, è furioso. «Conte la spieghi come crede confida ma è come quel tipo che ti dà un calcio in cu.., ma ti specifica: Te l'ho dato da amico. Si, ma alla fine resta sempre un calcio in cu.. ! La verità è che stanno mettendo sul falò della campagna elettorale tutta la legna che hanno. Senza accorgersi, però, che stanno bruciando pure il mobilio e la casa. Certo noi non possiamo fare una crisi su un argomento del genere, ma hanno approfondito la ferita. Ci stanno spingendo a fare un passo che non avremmo voluto fare».

Lo stato dell'arte nel governo è più o meno questo. La sortita di Conte ha innescato meccanismi difficili da gestire nella maggioranza gialloverde. Probabilmente il premier nell'accelerare le dimissioni di Siri prima del 27 maggio, ha dovuto assecondare le esigenze di un Di Maio che, terrorizzato dall'idea di affogare sotto il 20%, ha cominciato a dibattersi in tutti i modi, con due obiettivi: tentare di risalire la china nei sondaggi che da settimane vanno su e giù; ma, soprattutto, dimostrare a tutti di aver fatto una campagna anti-leghista, per svuotare la principale accusa che gli muovono i suoi oppositori interni, cioè di aver assecondato troppo Salvini. L'atteggiamento rigido su Siri, è stato un modo per ritirar fuori il gene principale del dna pentastellato, per utilizzare il richiamo della foresta, cioè il giustizialismo, in chiave elettorale. «Quando si parla di corruzione, addirittura di mafia ha spiegato noi non possiamo transigere. È un dato identitario. Per cui in Consiglio dei ministri, dove abbiamo la maggioranza, faremo passare il nostro punto di vista». Conte ha amministrato come ha potuto questa esigenza, ma la sua iniziativa, è stata considerata dai leghisti una pugnalata alle spalle. Anzi, per alcuni versi, il premier ha peggiorato le cose: per evitare le accuse di giustizialismo, ha usato una motivazione più politica, giudicando l'emendamento incriminato di Siri a favore di alcune aziende che si occupano di energia eolica - per altro bocciato ancor prima di essere presentato - come un tentativo di sabotaggio, che ha fatto venir meno la sua fiducia: ciò significa che anche se Siri fosse scagionato dalla magistratura, il suo ritorno al governo sarebbe impossibile.

Per cui tra paura per i sondaggi, difesa identitaria e campagna elettorale, è venuto fuori un caso che, come minimo, ha fatto perdere la faccia a Salvini. Uno schiaffo che, ad un mese dalle elezioni europee, per il leader leghista, e per i suoi, è stato un mezzo affronto: anche perché dimostra che la solidarietà dei partner di governo arriva fino ad un certo punto. Certo c'è sempre il collante del potere a tenere in piedi questa maggioranza: nell'ultimo Consiglio dei ministri, ad esempio, leghisti e grillini hanno litigato su Siri ma alla fine hanno dato il via libera alle nomine in Bankitalia secondo i desideri di Di Maio, mentre per quelle prefettizie hanno assecondato i voleri di Salvini. Solo che nel rapporto con l'opinione pubblica il potere conta, ma non basta. Per cui il vice-premier leghista si appresta a fare il buon viso e il cattivo gioco: sul «caso» Siri, Salvini non è tornato direttamente; probabilmente la Lega diserterà la riunione del Consiglio dei ministri che dovrà prendere la decisione sul sottosegretario; ma intanto il vicepremier ha rilanciato sulla «responsabilità dei giudici» che dovrà essere inserita nella riforma della giustizia («anche tra loro chi sbaglia deve pagare»). Ma a parte questo, la vera offensiva il leader leghista la scatenerà su un tema identitario per il Carroccio, un argomento su cui rendere la pariglia a Di Maio, magari utilizzando la stessa impostazione usata dal 5stelle su Siri: «È una questione su cui non possiamo transigere, perché è nel nostro dna. Escluso che possa essere il ritorno delle Provincie (secondo la maga Ghisleri il 57,8% degli italiani è per la loro abolizione totale), resta la Flat tax e, soprattutto, l'Autonomia regionale, cioè il gene dominante nel dna della Lega delle origini. Una battaglia su cui già i governatori del Carroccio di Veneto e Lombardia, Zaia e Fontana, hanno minacciato la crisi di governo. Il provvedimento a cui addirittura il ministro competente, la leghista Erika Stefani, ha legato la sua permanenza nell'esecutivo: «Se non passa mi dimetto». Insomma, arriveremo al «do ut des» tra temi identitari nella logica del contratto di governo. In caso contrario Salvini perderebbe la faccia del tutto.

Altri scenari, magari più dirompenti (nuovo governo o elezioni anticipate) sono, invece, legati a due fattori. Il primo riguarda il risultato elettorale: «Con la Lega sotto il 30% - è la previsione di Sestino Giacomoni, uno dei consiglieri del Cav e i grillini sopra il 20%, nessuno dei due avrà voglia di urne anticipate». Il secondo fattore, invece, tira in ballo la strategia di fondo di Salvini. Il leader leghista, volente o nolente, se rompe il rapporto con i grillini, ha un'unica alternativa: il ritorno al centro-destra. Sul tema, dall'ultimo sondaggio della Ghisleri emerge un quadro interessante: mentre tra gli elettori grillini il 65,8% vorrebbe continuare nell'alleanza con la Lega e solo il 23,7% preferirebbe quella con il Pd; tra quelli leghisti il 51,6% vorrebbe riproporre il centro-destra classico, cioè la coalizione con il Cav e la Meloni, e solo il 41,5% insisterebbe nell'asse con i 5stelle.

Tutto, però, dipende da Salvini. Confida Denis Verdini, per tanti anni plenipotenziario di Berlusconi: «Ho parlato con Matteo cinque ore di politica - anche se non so se stava appresso a me o faceva il gattone con mia figlia - e gli ho detto che deve parlare direttamente con Berlusconi e non con i suoi cosiddetti collaboratori.

Questa storia del governo basato sull'alleanza tra lui e la Meloni, non va da nessuna parte. E anche se si farà sarà un guaio. Alla fine torneranno indietro. Per vincere il centro-destra ha bisogno di qualcosa di centro».

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