Bartella, fortino cristiano ostaggio dell'Islam

La silenziosa pulizia etnica degli shabak sciiti: "Siamo in trappola, il Papa ci aiuti"

Bartella, fortino cristiano ostaggio dell'Islam

Bartella (Irak) La bandiera nera con le iscrizioni della Repubblica Islamica sventola a lato del municipio. Adnan Shada ha paura persino a guardarla. «L'hanno messa gli shabak della Brigata 30, è gente pericolosa - sussurra con un filo di voce - noi cristiani preferiamo non averci a che fare». Siamo a Bartella, un villaggio venti chilometri a est di Mosul simbolo della presenza cristiana nel nord dell'Irak. Da queste parti fino al 2014 gli unici simboli religiosi conosciuti erano la croce e il vangelo. E la sola minaccia era quella del fondamentalismo islamista di Al Qaida prima e dello Stato Islamico poi. Oggi tutto è cambiato. E non certo in meglio. «Lo Stato Islamico usava la violenza e il terrore per costringerci a fuggire. Gli shabak non sono molto diversi. Invece di intimidirci con le armi cercano di soggiogarci con i soldi dell'Iran e la complicità di alcuni cristiani. Ma il disegno è lo stesso, cacciarci da qui e prendersi la nostra terra», spiega Adnan mentre ci spinge dentro la sua casa nascosta tra le viuzze del centro di Bartella. Ma chi sono gli shabak? «Un tempo - racconta Adnan - erano gente come noi. Vivevano con noi, frequentavano le nostre scuole. Uno di loro è stato mio amico d'infanzia. Di certo non li consideravamo un pericolo. Vivevano in campagna, erano un po' sciiti e un po' curdi. Con Saddam non avevano certo vita facile. Oggi però è cambiato tutto. Durante il Califfato gli shabak sono scappati come noi cristiani. Nel 2016 però le milizie sciite li hanno radunati, inquadrati nella cosiddetta Brigata 30 e usati per combattere l'Isis in questa zona. Da allora questo è il loro regno mentre per noi cristiani sono iniziati i «problemi». Per padre Benham Benouka, parroco siro - cattolico di Bartella quei «problemi» hanno un nome preciso. «Si chiama pulizia etnico-religiosa e riguarda ancora una volta noi cristiani - spiega il parroco senza troppi giri di parole - Guardatevi attorno, sulla strada sventolano le bandiere nere dei gruppi filo-iraniani, i poster dei loro martiri e quelli con il volto di Hussein, il nipote di Maometto simbolo della religione sciita. È iniziato tutto quattro anni fa. Nonostante la cacciata dell'Isis, la nostra gente ha fatto molta fatica a rientrare. Qui a Bartella sono tornate meno di 1200 famiglie cristiane, praticamente meno della metà. Quattrocento sono ancora nei territori curdi e più di 800 sono fuggite all'estero. Gli shebak, invece, grazie alle milizie sciite e ai soldi iraniani hanno costruito 13mila appartamenti creando veri e propri villaggi sui terreni che un tempo erano esclusivamente cristiani. Praticamente ci stanno circondando». A spiegarti il meccanismo della pulizia etnica in salsa sciita ci pensa Adnan. «Il loro obbiettivo sono i terreni attorno Bartella, Karakosh e Karemelesh, i tre villaggi simbolo della presenza cristiana nella piana di Niniveh. Quando siamo tornati abbiamo trovato le case razziate o bruciate e per rifarci ci siamo venduti i terreni. Ma siamo stati ingannati. Eravamo convinti di cederli a dei cristiani come noi con ancora un po' di soldi, invece gli acquirenti erano delle semplici teste di legno, traditori al soldo degli shabak. Oggi gran parte di quei terreni sono stati rivenduti agli shabak. Loro ci hanno costruito veri e propri villaggi circondando Bartella, Karakosh e Karemelesh. Praticamente siamo prigionieri di una tenaglia che si stringe di giorno in giorno».

A serrare le ganasce di quella tenaglia contribuiscono - secondo i cristiani - le complicità del governo di Bagdad e delle autorità locali. «Il governo - ripete il parroco - è in mano agli sciiti e per legge i sindaci dei villaggi possono essere soltanto musulmani. Quindi praticamente siamo in trappola. Qui a Bartella gli shabak si sono persino messi a sparare davanti alla nostra chiesa. Sappiamo chi è stato e abbiamo fatto i nomi alle autorità chiedendo che li interrogassero, ma alla fine non è successo niente. Per questo ci sentiamo soli e dimenticati. Per questo speriamo che la visita del Papa ci aiuti a contrastare la nuova minaccia.

Nel 2014 dopo l'esodo cristiano a Erbil Papa Francesco mi chiamò e mi disse Non mi scorderò di voi. La visita dimostra che non ci ha scordato. Ora però c'è bisogno di un ulteriore sforzo politico e diplomatico per garantire la nostra presenza. Altrimenti le comunità cristiane in Irak scompariranno per sempre».

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