Nei giorni drammatici dell'indecoroso ritiro da Kabul, il giudizio unanime sulla gestione della crisi da parte americana aveva varcato i limiti del disprezzo. L'America, si diceva, si arrende senza dignità e abbandona al loro destino genti innocenti cui aveva promesso protezione. E, soprattutto, Joe Biden dimostra di non avere visione, di essere uno stanco vecchio senza nerbo che guiderà il suo Paese verso l'inesorabile declino. Nessuno (o quasi) che facesse lo sforzo di guardare un po' più in là dell'Afghanistan, e magari più avanti di qualche settimana. O che si ricordasse che esiste - piaccia o non piaccia è lì da vedere - una continuità nella recente politica estera in Asia degli Stati Uniti: come ieri Biden altro non ha fatto che portare alle estreme conseguenze la scelta di Donald Trump di lavarsi le mani dell'Afghanistan riconsegnandolo ai talebani (e non semplicemente di ritirare le truppe americane), oggi altro non fa che proseguire con qualche rettifica la politica di contenimento della Cina che il rivale repubblicano aveva avviato a fine mandato.
Qualcuno ricorderà che un anno fa l'allora segretario di Stato Mike Pompeo aveva compiuto un viaggio nella regione dell'Indo-Pacifico. Era stato in India, in Australia e in Giappone per lanciare un chiaro messaggio: l'America è qui per costruire insieme con voi un'alleanza difensiva in funzione anti cinese. Un'inedita alleanza militare denominata Quad, i cui primi passi si sono concretizzati in manovre congiunte nei mesi successivi, ma anche un'intesa strategica ed economica per contenere la sempre più evidente volontà egemonica di Pechino nella regione. Un messaggio che al partito comunista cinese non era piaciuto neanche un po', e che è lo stesso portato nel frattempo avanti con il fattivo sostegno di Londra che si è concretizzato in questi giorni con l'annuncio della nascita dell'Aukus, la nuova triplice alleanza che mette insieme Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia e che si affianca alla Quad poc'anzi citata.
L'America, insomma, dall'Asia non si ritira affatto. Semmai rivede le sue priorità, mettendo il braccio di ferro con la Cina al primo posto. Rimane da vedere se l'aver verosimilmente abbandonato l'Afghanistan proprio nelle mani di Xi Jinping sia stata una buona idea. Ma intanto è evidente che la sfida lanciata da Pechino con l'espansionismo nel Mar Cinese meridionale, con la repressione a Hong Kong e nel Xinjiang, con le aperte minacce di invasione di Taiwan, con la messa nel mirino dell'Australia che denuncia il sistematico spionaggio cinese e con gli atti di prepotenza ai confini con l'India è stata raccolta a Washington. Biden ha detto chiaramente che il futuro del mondo dipende dalla libertà nell'Indo-pacifico, ottenendo da Pechino una risposta rabbiosa.
Lecito chiedersi a cosa porterà questa svolta storica, che lascia ancora una volta gli alleati europei in secondo piano e che vede tra l'altro il ritorno forse velleitario di Londra in un ruolo di protagonista a livello globale. Boris Johnson, rispondendo alla preoccupata ex premier Theresa May, ha affermato che Londra «resta determinata a difendere il diritto internazionale e darà questo forte consiglio ai suoi amici nel mondo ma anche a Pechino».
Un chiaro riferimento alla volontà di contribuire al pattugliamento navale americano del mare su cui Xi pretende illegalmente di imporre la sovranità cinese. Ma anche all'eventualità di partecipare alla difesa di Taiwan in un futuro più o meno prossimo. Intanto, il 24 Biden incontrerà gli altri leader della Quad: la sfida alla Cina è lanciata.
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