Roma Uno era un petalo prezioso del Giglio magico, ora un po' appassito, l'altro ha un passato da Lothar Boy (per via della pelata) dalemiano. Graziano Delrio e Marco Minniti, ora sono entrambi ministri del governo Gentiloni, tutti e due diversamente renziani, sulle barricate per la questione immigrati. E se l'esecutivo è lo stesso, i fronti sono opposti. Delrio, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, ieri in un'intervista al Corriere ha detto: «Nessun porto chiuso, lo dico da responsabile della Guardia costiera e delle operazioni di soccorso ai migranti. Non stiamo rinunciando a quei princìpi di umanità che l'Italia ha messo in campo con Renzi e Gentiloni». Giovedì Minniti, ministro dell'Interno, da Milano aveva lanciato un ultimatum all'Unione Europea: «Il tempo delle parole si è consumato, in queste ore abbiamo avuto un picco particolarmente alto con 25 navi delle organizzazioni non governative, delle missioni, della guardia costiera italiana. In 25 porti del nostro paese stiamo facendo assistenza a queste navi. È uno sforzo straordinario». Il giorno prima, il titolare del Viminale, già sull'aereo per un viaggio negli Usa, è scappato a Roma per gestire personalmente l'ultima emergenza. La linea del pugno duro con Bruxelles si è consumata con una lettera nella quale si chiede all'Europa di «non voltarsi dall'altra parte, facendo finta di niente». Ed ecco l'ultimatum: «Altrimenti l'Italia sarà costretta a chiudere i porti alle navi cariche di profughi battenti bandiera straniera».
C'è stato anche un incontro al Viminale, durante il quale il ministro avrebbe posto la questione al premier Gentiloni. Ma la svolta di Minniti, nel Pd e nell'esecutivo non è piaciuta a tutti. Così è arrivata la reazione di Delrio: «La nostra fermezza e la protesta di queste ore è per chiedere che l'Inno alla gioia si suoni anche quando sbarcano le navi dei migranti e non solo per celebrare il sogno europeo», ma niente porti chiusi. Un duello che non arriva a caso. Con la batosta alle amministrative e il centrodestra in salita nei sondaggi, il leader del Pd Matteo Renzi è sempre più in crisi, e tra i dem c'è aria di fratelli coltelli. Minniti e Delrio sono figure importanti del governo Gentiloni e per entrambi più volte si è sussurrato un ruolo di leadership. Delrio è uscito dal Giglio magico renziano già nel 2014, quando da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, a pochi mesi dall'arrivo del rottamatore a Palazzo Chigi, sono subentrate le divergenze caratteriali e le prime discussioni tra i due. Renzi aveva paura di «essere oscurato» e il 2 aprile del 2015, sposta «Graziano» alle Infrastrutture dopo le dimissioni di Maurizio Lupi. Da lì in poi è stata sempre una rivalità sottotraccia, mitigata dalle pubbliche dichiarazioni di appoggio. E non è da sottovalutare un dettaglio: la vicinanza di Delrio a Romano Prodi. Lo stesso Prodi che in questi giorni ha attaccato Renzi, definendolo «una causa persa». A gettare acqua sul fuoco, nell'intervista al Corriere, ci ha pensato proprio Delrio, che ha invitato il Professore a «sentirsi a casa nel Pd». Mentre Marco Minniti è sempre in ascesa.
Ha giurato fedeltà a Renzi, piace pure a Dario Franceschini: «Marco è il nostro capitano», aveva detto il leader di Area Dem a marzo scorso al Lingotto di Torino, durante il lancio della candidatura dell'ex rottamatore alle primarie. Nella stessa kermesse Delrio dichiarava: «Senza una squadra anche Maradona va in difficoltà», in quel caso il numero 10 era Renzi. Ma i ministri, come i mediani, sono fondamentali.
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