Il bluff dello spudorato Renzi: bonus finanziato da nuove tasse

Il premier annuncia un tesoretto da 1,6 miliardi per comprarsi il voto alle Regionali. Ma non dice la verità: sarà coperto da altri balzelli. Così ci manda tutti sul lastrico

Il bluff dello spudorato Renzi: bonus finanziato da nuove tasse

È proprio forte questo Renzi: è sotto di 16 miliardi di clausole di salvaguardia, e dice che ha un tesoretto di 1,6 miliardi. Ha il record del debito pubblico, della pressione fiscale, della disoccupazione e della disoccupazione giovanile e non si vergogna. Ha il rapporto deficit/Pil al limite, è bloccato sulle riforme e continua a mentire e a prendere in giro gli italiani. Forte, ma nel senso di spudorato!

Se l'Europa ancora non gli ha aperto una procedura di infrazione deve solo ringraziare Berlusconi, che a ottobre 2011, in uno degli ultimi summit europei cui ha partecipato da presidente del Consiglio, fece inserire nei regolamenti la possibilità di considerare i cosiddetti «fattori rilevanti» nella valutazione del rispetto dei parametri del patto di Stabilità e crescita da parte dei paesi membri dell'Unione.

Ma fino a quando durerà la pazienza dei commissari europei, e soprattutto quella degli italiani, davanti a questo venditore di tappeti, che compra in deficit il voto degli elettori e posticipa le medicine amare che, prima o poi, però, dovranno essere somministrate?

Il Def, di cui non c'è un testo, di cui si conoscono solo pochi numeri e abbozzati, è l'ennesima presa in giro. Renzi rischia tutto, anche con l'Europa, forzando al massimo la mano, pur di non dire agli italiani, che tra un mese e mezzo dovranno votare, la verità. E il «tesoretto» o «bonus» che si è inventato si presta perfettamente a questo gioco. A comprarsi le elezioni regionali, proprio come ha fatto con gli 80 euro per le europee. In un momento in cui il Partito democratico è travolto dagli scandali e diviso al suo interno sulla legge elettorale, ma non solo.

Renzi dice che non ci saranno tagli ai Comuni, anzi sono stati dati loro più di 11 miliardi; che non ci saranno aumenti di tasse, quando invece le clausole di salvaguardia che prevedono aumento di Iva e accise sono già legge e scatteranno automaticamente nel 2016 se non si faranno tagli di spesa per 16 miliardi di euro solo in un anno; che gli Enti locali non aumenteranno le tasse, quando la local tax di sua fabbricazione sarà lo strumento che consentirà loro di aumentare le aliquote a volontà.

Anche il nuovo «tesoretto» elettorale, l'ultima trovata del presidente del Consiglio, è un imbroglio: si spendono in anticipo soldi che saranno poi recuperati con l'aumento di tasse derivante dal taglio, già programmato dal governo, ma ovviamente non comunicato alla pubblica opinione, delle tax expenditures , vale a dire quegli sconti fiscali oggi in vigore a favore dei contribuenti. Risultato? Aumento di tasse per tutti a vantaggio di pochi altri, guarda caso il bacino elettorale del premier.

Ma dopo le Regionali la musica cambierà, Renzi dovrà affrontare la realtà, che è diversa da quella che racconta, e i conti andranno tutti rifatti, con il rischio di una manovra correttiva tra pochi mesi.

Quello che sta venendo fuori, infatti, dal primo anno e qualche mese di governo del fiorentino ha un che di allucinante. Prendiamo il Jobs Act, che è il cavallo di battaglia renziano. Sono di venerdì, stesso giorno del Def, i dati dell'Inps che certificano come siano solo 13 i contratti in più attivati nei primi due mesi del 2015 rispetto ai primi due mesi del 2014, e non i 79.000 sbandierati da Renzi e Poletti. Lo ha spiegato bene l'Ufficio parlamentare di bilancio: il numero complessivo delle nuove assunzioni a fine febbraio 2015 differisce di molto poco rispetto al corrispondente dato di febbraio 2014. Appunto: 13 unità. I 79.000 contratti in più di Renzi e Poletti non sono altro che conseguenza del fatto che molte imprese hanno rinviato le assunzioni che avrebbero dovuto fare nel quarto trimestre 2014 all'inizio del nuovo anno, per usufruire della decontribuzione in vigore dal 2015 (effetto rinvio o «effetto attrazione» che dir si voglia). Bel risultato, Matteo Renzi!

Lo stesso accadrà a fine anno, quando le imprese anticiperanno le assunzioni programmate per il 2016, nel dubbio che la decontribuzione non sia confermata, o che le risorse stanziate finiscano: una vera e propria «bolla occupazionale», come l'ha definita in più occasioni il professor Luca Ricolfi, attirandosi le ire dei renziani e delle renziane di più stretta osservanza. Ma i numeri sono numeri, e Ricolfi ha ragione.

C'è dell'altro: i dati delle nuove assunzioni, ancorché pochissime, si riferiscono a gennaio e febbraio 2015. Sono, quindi, frutto delle decontribuzioni (che, tra l'altro, erano nel programma elettorale del Pdl a febbraio 2013) e non certo del contratto a tutele crescenti del Jobs Act, che è entrato in vigore solo il 7 marzo 2015. Nel considerare ciò, si tenga conto che per la decontribuzione delle nuove assunzioni il governo ha stanziato solo 1,9 miliardi, con un limite di 8.060 euro per ogni unità. Ma quando le risorse finiranno, cosa succederà? È presto detto! Anzi, è scritto chiaro e tondo nel decreto legislativo di attuazione del Jobs Act. L'ultima chicca è questa: l'introduzione di un «contributo aggiuntivo di solidarietà a favore delle gestioni previdenziali a carico dei datori di lavoro del settore privato e dei lavoratori autonomi». Fuori dal linguaggio del ministero dell'Economia e delle finanze: un aumento dei contributi Inps a carico delle aziende e degli autonomi. Significa che se i soldi per la decontribuzione non basteranno, aumenteranno i contributi: una contraddizione in termini, che sa di atroce presa in giro.

Renzi fa sempre così: a una parte dà e da un'altra prende. Si pensi, con riferimento al 2014, al taglio della componente lavoro dell'Irap per le imprese: l'ha finanziata con l'aumento della tassazione del risparmio. È ovvio, poi, che la pressione fiscale non diminuisce, anzi aumenta.

Insomma: i numeri ci dicono che il Jobs Act è un imbroglio, e dalla lettura approfondita dei provvedimenti viene fuori che lo è anche la decontribuzione delle nuove assunzioni. Ecco la cifra di Matteo Renzi, giocatore di poker di periferia.

Per non parlare delle previsioni di crescita del nostro Pil nel 2015, anch'esse illusorie. Quel +0,7% che, con fare sornione, si fa balenare facilmente superabile, rischia di non realizzarsi. Come fu lo scorso anno, quando si ipotizzò una crescita dello 0,8%, per poi dover mestamente certificare una caduta del Pil dello 0,4%. Uno scarto tra preventivo e consuntivo (di 1,2 punti percentuali) che rimane un vero e proprio record.

La conseguenza di tutto ciò è l'ulteriore perdita di posizioni dell'Italia, sia nei confronti dell'Ue, sia nei confronti del resto del mondo, che in questi sette lunghi anni di crisi ha relegato il nostro paese a fondo classifica: al 175° posto su 185 paesi in termini di reddito pro-capite.

Questo avrà conseguenze non solo economiche: se non si inverte la tendenza, il prossimo passo sarà l'uscita del nostro paese dal gruppo dei G7. C'è consapevolezza di ciò nel governo? Sembrerebbe di no. Quel che manca è la direzione politica. La capacità da parte di Matteo Renzi, che ha avocato a sé, violentando le istituzioni, troppe competenze, di indicare la direzione di marcia.

Il vero limite di questa politica è pensare che uno Stato, tra l'altro a corto di quattrini nonostante le poetiche narrazioni, possa sostituirsi ai meccanismi propulsivi dell'economia, i cui automatismi sono gli unici in grado di creare reddito, quindi maggiori entrate per la stessa finanza pubblica. Certo rimetterli in moto, dopo il massacro fiscale di questi ultimi anni, non è cosa facile.

Tanto più che i famosi tagli della Spending review sono rimasti lettera morta, evocati solo quando si è ormai con l'acqua alla gola e le clausole di salvaguardia rischiano di determinare un nuovo bagno di sangue. Ma così si passa solo da un'emergenza all'altra. Senza alcuna visione, senza alcuna strategia. E allora restano in campo solo le promesse, e la disperazione degli italiani. Ma non può finire così.

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