C'è stata la grande manifestazione di sabato scorso. Le Donne in rete hanno gridato la loro rabbia contro il «patriarcato muscolare di questo governo». Prima ancora era arrivata la lettera di Elena, la sorella di Giulia Cecchettin che aveva scritto al Corriere della sera: «I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro». Poi c'è stato l'intervento del sindaco di Bologna Matteo Lepore che ha tuonato, pure lui, contro il patriarcato.
Ormai, questa parola è diventata sinonimo di delitto ed è rotolata nel recinto della vergogna, spesso associata alla cosiddetta cultura di destra.
Patriarcato, patriarcato, ancora patriarcato, coniugato, anzi sovrapposto, al maschilismo che invece è altra cosa, quella sì dai stigmatizzare senza se e senza ma. Ormai la parola è impronunciabile, bandita dal consorzio civile, e chi prova ad avanzare obiezioni diventa un bersaglio fisso.
«Mi è capitato - afferma lo stesso Lepore - che alcuni uomini mi abbiano fermato accusandomi di esagerare, chiedendomi di non parlare di patriarcato, dicendomi che anche gli uomini subiscono violenza, Che anche i padri separati vengono discriminati».
Giusto o controverso, non importa, Lepore e tanti altri hanno già emesso la loro sentenza: «In questo momento non c'è una guerra fra i sessi, c'è una guerra culturale più ampia».
E quale sarebbe?
Rieccoci alla divisione dell'emiciclo: «La destra e la cultura della destra stanno cercando di spegnere delle voci e di intimidire chi ha un'idea diversa da quello che i conservatori considerano l'ordine naturale delle cose».
Insomma, il mondo è stato tagliato in due, bianco e nero come nemmeno i manichei sapevano distinguere, e qualche volta sul banco degli imputati viene portato il sesso maschile, qualche altra volta la destra, oppure i primi della seconda, senza dimenticare che per un accidente della storia il capo del governo è una donna.
Contorsioni e ripetizioni. Finché a furia di rilanciare un concetto che sembra si possa applicare a tutto e tutti è finita con raffiche di fuoco amico: «Rassegno la mie dimissioni da co portavoce di Europa Verde» ha spiegato la deputata Eleonora Evi, manifestando contro «l'ennesimo partito personale e patriarcale». E innescando così la risposta imbarazzata e spaesata di Angelo Bonelli: «Io patriarcale? Chi mi conosce sa che è falso».
Insomma, a sinistra hanno cominciato a insultarsi rinfacciandosi appunto il patriarcato.
Ma questo non ferma il martellamento, l'uso seriale e quasi maniacale di un vocabolo scagliato spesso contro l'avversario o semplicemente indicato come un veleno da eliminare: «La cultura tossica del patriarcato - afferma Elly Schlein - resiste ed è responsabilità collettiva sconfiggerla, soprattutto è responsabilità degli uomini».
Così a senso unico un corteo di intellettuali, artisti, giornalisti e naturalmente politici. Poi c'è Mona Eltahawy, scrittrice egiziana, autrice del libro Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato, che già a maggio la prendeva da lontano: «Fatevi ispirare dalle rivoluzioni femministe in Iran, sono capaci di sollevarsi contro uno dei peggiori regimi patriarcali del mondo».
Poi, però stringeva sul nostro Paese, con una virata spettacolare sempre seguendo la rotta tracciata da generazioni di maschi prevaricatori: «Dicono che Giorgia Meloni sia frutto del femminismo, ma lei ne è l'antitesi. Usa il femminismo per distruggerlo.
Voi in Italia iniziate da qui, chiamando la vostra premier per quel che è: uno strumento del patriarcato».Davvero, non si finisce più e si arriva infine alla guerra delle desinenze. Dichiarata a milioni di italiani dalla sociolinguista Vera Gheno: «Si dice avvocata, chi non lo fa ha una cultura patriarcale».
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