A riana Grande. Ma anche Ed Sheeran. Justin Bieber. Benji e Fede. The Vamps. I 1975. Qualche anno fa gli One Direction. Chiunque abbia accompagnato almeno una volta la figlia al concerto di uno di questi artisti che riempiono gli stadi, i palazzi dello sport e le arene come quella di Manchester - ed è difficile avere una figlia teen-ager e non aver mai ceduto alla sua supplica - sa che non c'è niente di più lontano fisicamente ed emotivamente dalla guerra santa di questi eventi plasticati fatti di unghie laccate male e smangiucchiate, di sudore e vomito, di magliette vendute a prezzi esagerati che noi comunque compriamo, di zainetti pieni di acqua, panini al prosciutto cotto e fazzoletti per asciugare le lacrime, di cuori fatti con le dita come un calciatore dopo un gol, di raccomandazioni inascoltate, di svenimenti per il caldo e per l'eccitazione, di rimmel colato, di cellulite e di frasi sul diario il giorno dopo che non si va a scuola perché le ore sono piccole e le emozioni grandi.
A sedici anni, a quindici, a tredici, hai il diritto di vivere per una cantante americana, non rompete le scatole con inutili moralismi e con i vostri Pink Floyd. Hai il diritto di divertirti. Ha il diritto di chiedere al papà di acquistare a settembre il biglietto per una data che ci sarà nel maggio successivo, a rischio che nel frattempo i tuoi gusti musicali cambino e otto mesi dopo quel gruppo nemmeno ti piace più ma comunque al concerto ci vai perché non hai il coraggio di ammetterlo (a noi è accaduto davvero); e tuo papà trascorre due ore da incubo sul sito dell'agenzia di ticketing sperando di accaparrarsene uno, in cambio della modica e nemmeno tanto mantenuta promessa di studiare per quell'anno scolastico e di tenere in ordine la stanza. Hai il diritto di pretendere che la vita sia una scaletta da cantare a squarciagola e che papà, sempre lui, ti aspetti fuori guardando l'orologio e fumando una sigaretta con altri papà e che ti riporti a casa in automobile mentre tu sul sedile dietro asciughi l'adrenalina. Hai il diritto di avere pochi pensieri e lievi, nessuno dei quali include l'ipotesi che arrivi all'improvviso un soldato di Allah a indire la grande lotteria esplosiva per decidere chi smette di cantare per sempre, chi può continuare a farlo anche se magari non avrà mai più voglia.
Colpire un concerto di una teen-idol vuol dire alzare di un altro po' l'asticella delle nostre paure. Vuol dire ammaccare i nostri desideri più intimi, che i nostri figli crescano spensierati, magari viziati e un po' conformisti ma innocui, con trasgressioni addomesticate come la passione per una cantante mainstream con le sue rime da cartiglio di cioccolatino che però a impararne le canzoni a memoria ci si sente il centro del mondo. Colpire i nostri ragazzi che escono da un concerto vuol dire mischiare le urla da deliquio a quelle da paura. Vuol dire entrare con la mazza da baseball in una cristalleria. Vuol dire allargare l'inventario delle nostre paure, che ora nessuno di noi sarà più tranquillo quando nostra figlia o nostro figlio sarà dentro un palazzetto con sedicimila suoi coetanei. Vuol dire che guardi quelle foto e ogni ragazzina dei sobborghi di Manchester è figlia tua. Vuol dire, soprattutto, colpire due generazioni in una, e unirle con il mastice dell'angoscia. Lasciate stare i nostri figli, lasciate stare noi.
Il nostro compito di genitori non è solo acquistare quel biglietto e pagarlo 65 euro più diritti di prevendita solo per vedere l'apparecchio per i denti sbucare da un sorriso stiracchiato. Non è solo andare a prendere nostra figlia e chiederle se si è divertita, pensando dentro di noi che erano meglio i nostri, di ideali, che volevamo cambiare il mondo e non siamo riusciti nemmeno a spettinarlo un po'.
Il nostro compito è fare la manutenzione dei piccoli sogni di chi abbiamo messo al mondo. Parafrasando Voltaire, che forse non l'ha nemmeno mai detto, non mi piace la tua musica ma darò la vita per consentirti di ascoltare canzoni con la rima amore-cuore.
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