Al Capone ed era Al Capone - fece la fesseria di non pagare le tasse. Fu così, solo così, che alla fine lo incastrarono. Vincent Asaro, che fra i «bravi ragazzi» di Brooklyn è stato un capataz di quelli tosti, e per 21 volte l'aveva sfangata, in passato, uscendo ogni volta come un giglio immacolato da altrettanti processi per omicidi e rapine, la fesseria l'ha fatta ancora più grossa. Ha mandato due scagnozzi ad abbrustolire l'auto di un poveretto che aveva avuto la sfortuna di tamponarlo. Così, dopo mezzo secolo di onorata carriera nella «famiglia» Bonanno, Vincent si è beccato 8 anni di carcere. A ottantadue anni suonati.
Roba che ancora adesso Vincent non riesce ad accettare, anche se le sue avvocatesse Elizabeth Macedonio e Diane Ferrone gli hanno spiegato sorridendo che alla sua età non si manda in galera la gente per una sciocchezza del genere. E passa le giornate come un muto, le mani scosse da un lieve tremito e gli occhi persi nel vuoto, come un vecchio rincoglionito. Va capito, il vecchio Vincent. Non sono gli 8 anni. E' il prestigio di cui godeva nel «giro»; l'immagine da impunito, il mito che si portava appresso che tutti insieme, in un sol colpo, affondano come il Titanic, lasciando a galleggiare nell'aria una sonora, sferzante, irridente risata. Il triste soundtrack della sua vecchiaia.
Insieme con lui, nello stesso processo, hanno condannato John Gotti, nipote del famoso, omonimo gangster newyorchese. Ma è solo di Asaro, l'«ultimo dei bravi ragazzi», che i giornali americani parlano, rievocando la sua carriera di uomo d'«onore» e quel magistrale film del 1990 di Martin Scorsese: «The Goodfellas». Quei «bravi ragazzi», appunto. Storia che ruotava proprio intorno a un episodio di cui Asaro era stato protagonista. Cinquantasette anni di «onorata» carriera in Cosa Nostra, dal 1957 al 2014. E mai uno straccio di prova, lungo tutti i 21 processi in cui era comparso alla sbarra, capace di incastrarlo.
L'ultima volta era successo due anni fa. Associazione mafiosa, omicidio, estorsione, rapina. Fino all'accusa di essere stato una delle menti dietro alla più grande rapina compiuta negli Usa: sei milioni di dollari (5 in contanti, uno in diamanti e oro) involatisi l'11 dicembre 1978 dall'aeroporto JFK di New York. La storia portata al cinema da Scorsese.
Asaro rischiava l'ergastolo. Uscì assolto, come sempre. Quanto a collaborare con la giustizia, eccola lì, tatuata sul braccio, la sua risposta: «Morte prima del disonore». L'ultimo processo che lo vide sul banco degli imputati si celebrò tre anni fa. Ne venne fuori, scrisse il New York Times, «un ritratto della mafia lungo 40 anni: dagli anni del suo dominio a New York fino al suo declino».
Indagando su una serie di casi irrisolti da anni, la polizia era risalita a lui dopo il ritrovamento di resti umani sotterrati nella casa di un defunto membro del clan Lucchese, Jimmy Burke. Lo stesso che l'Fbi sospettò per anni di essere il Robert De Niro del film di Scorsese. Ovvero il regista della rapina al Jfk. Fu un cugino di Asaro, Gaspare Valenti, un «collaboratore di giustizia», a inguaiare Vincent. Lui a fare il nome di Asaro come componente della rapina all'aeroporto, e lui a raccontare il primo omicidio commesso da Asaro insieme con Burke nel 1969. Vittima tale Paul Katz, strangolato con un guinzaglio per cani perché sospettato di essere una spia, un informatore degli «sbirri». «Li aiutai io a seppellire il cadavere sotto un blocco di cemento», confessò Valenti. Ma fu la sua parola contro quella di Asaro. Prove, nisba.
La svolta, nella carriera di Vincent, avvenne proprio nel 1978, con la rapina al JFK. Con la sua parte, 750 mila dollari, si comprò un locale, chiamandolo «After» (inteso come «dopo« il colpo).
E quando quelli del Bureau gli chiedevano come avesse fatto a mettere insieme tutti quei soldi, Vincent Asaro li guardava di sbieco, sfoggiando lo stesso sorriso, beffardo e sprezzante, di De Niro. Fino all'altro ieri, con la fesseria della macchina incendiata a un poveraccio. Così, per togliersi uno sfizio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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