«Non riconosciamo i test Iba (International boxing association) sul genere perché il loro procedimento non è lecito. Nessuno vuole tornare ai giorni in cui si facevano i test sui genitali».
Dalle parole del portavoce del Cio (Comitato olimpico internazionale), Mark Adams, si capisce bene come i «casi Khelif» resteranno sempre un'incognita. E la ragione è semplice: non c'è, da parte del Cio, alcuna volontà di risolvere il rebus delle «variabili di genere» degli atleti. Anche qui il motivo è banale, pur se inconfessabile: quanto più infatti il Cio rimarrà fedele interprete di un certo mainstream culturale, tanto più il suo potere (non solo sportivo, ma soprattutto economico) rimarrà intatto, anzi si consoliderà in forza della saldatura col pensiero dominante. E, funzionale a questa disputa, nulla di meglio della contrapposizione ideologica sulle due «pugilatrici intersex» presenti a Parigi: l'algerina Imane Khelif e la taiwanese Lin Yu-Ting (entrambe ammesse dal Cio nelle competizioni femminili già a Tokyo 2020). Ma torniamo alla «dura presa di posizione» (non c'è giornale che esca dal solito cliché lessicale, ndr) del portavoce del Cio: «Non possiamo tenere conto dei test del Dna». Come dire: diamo un calcio alla scienza. Perché qui, secondo mr. Mark Adams, in ballo c'è solo «una questione di diritti umani. E quelli del Dna sono test non leciti, condotti in modo arbitrario. Una cosa è il dibattito sui social, un'altra la privacy e i diritti umani: quelli non si condensano in 140 caratteri». Insomma, l'ennesima aberrazione del politicamente corretto. E se ti azzardi a far notare, come ha fatto ieri il generale Roberto Vannacci, che «Imane Khelif è stata squalificata dai campionati mondiali di Nuova Delhi del 2023 in quanto hanno evidenziato nell'atleta i cromosomi XY tipici dell'uomo», vieni subito bollato come «omofobo e negazionista dei diritti delle donne». Quello citato dall'europarlamentare della Lega appare un dato di realtà incontestabile; tuttavia, in una situazione oggettivamente complessa e controversa come quella della vicenda Kelif, perfino i «dati di fatto» si prestano ad essere affermati o confutati in base ai pregiudizi delle due fazioni in guerra.
Intanto ieri in campo ieri è scesa pure Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia: «Quando gli argomenti scarseggiano, la razionalità latita e la ragionevolezza è accantonata da tempo, che si fa? C'è sempre una soluzione per la nostra sinistra, anzi due: gridare al complotto (in questo caso putiniano) e all'allarme fascista». Spiega Roccella su Facebook: «Messi di fronte alla contraddizione insanabile tra la difesa delle donne e la promozione della fluidità, del non binarismo sessuale e delle teorie gender di ogni ordine e grado, e non sapendo evidentemente come uscirne ora che anche un'istituzione politicamente correttissima come l'Onu ha capito che nelle gare sportive femminili c'è un problema, la sinistra italiana e i suoi organi di informazione tirano fuori il complotto russo ordito in combutta con una fantasmagorica fasciosfera».
«Se la questione dell'identità e dello spazio delle donne, messi a repentaglio dall'ideologia woke, non fosse serissima - conclude la ministra - ci sarebbe da ridere.
Ci sarebbe da ridere perché evocare Putin di fronte a una questione di equità sportiva posta dal governo più filo-Ucraina d'Occidente, e da alcuni fra gli esponenti più atlantisti di quello stesso governo (la presidente del Consiglio, e mi ci metto anch'io col mio curriculum occidentalista di una vita), significa proprio non avere niente da dire».L'incontro di boxe continua, il gong dell'ultima ripresa è lontano. Consentiti anche i colpi bassi.
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