
Io c'ero. Dice proprio così Lauro Azzolini: «Io c'ero alla Cascina Spiotta». E la storia ritorna in cronaca. Un mistero, uno dei tanti degli anni di piombo, è finalmente risolto. Era lui il brigatista che una mattina di giugno di cinquant'anni fa scappó nel bosco dopo la drammatica sparatoria in cui morirono Mara Cagol, moglie di Renato Curcio, e un carabiniere. Da tempo ormai il cold case, incredibilmente dimenticato per decenni, era stato riaperto ma nessuno immaginava un finale del genere. E invece Azzolini, ormai ultra ottantenne e all'ergastolo per una sfilza di omicidi, arriva davanti alla corte d'assise d'Alessandria. E svela a sorpresa la sua verità. Anzi, prova a riscrivere quella storia: Mara Cagol secondo lui fu uccisa quando si era già arresa. A freddo, nel corso di una giornata di violenza indicibile.
In realtà, Azzolini in parte improvvisa e in parte si affida a un documento scritto, spiegando che cosa era successo quel giorno, nel cascinale in cui era tenuto prigioniero Vittorio Vallarino Gancia, il re dello spumante. «Lo leggerete voi - spiega l'imputato consegnando le carte ai magistrati - io non ce la faccio, il dolore mi trafigge come una lama». Siamo alle battute iniziali di un processo davvero unico: sotto accusa per sequestro e omicidio ci sono tre nomi di spicco della storia brigatista: i due capi storici, Renato Curcio e Mario Moretti, e lui, uno dei «soldati» più importanti nella storia del terrorismo.
Proprio una relazione interna alle Br, corredata di disegni e trovata nel covo milanese di via Maderno negli anni Settanta, è il grimaldello che ha fatto riaprire le indagini: le impronte digitali di Azzolini, incredibilmente trascurate per decenni, sono ovunque. Lui, poi, completa la propria rovina: in auto, senza sapere di essere ascoltato dalle cimici degli investigatori, confida a un estraneo che lui c'era davvero alla Cascina Spiotta, in provincia di Alessandria.
L'ex Br è spalle al muro. Ma nega, mentre il processo ai fantasmi del passato ha inizio. Fino a ieri: «L'ultima immagine che ho di Mara Cagol e che non dimenticherò mai è di lei ancora viva che si era arresa, con entrambe le braccia alzate, disarmata e urlava di non sparare». Azzolini si butta nella macchia e la sua partecipazione alla sparatoria viene inghiottita per cinquant'anni, la compagna cade come il carabiniere Giovanni d'Alfonso, mentre il tenente Umberto Rocca perde un braccio e un occhio. Come è andata davvero su quel prato? Cagol è stata davvero uccisa a freddo o è morta nel conflitto a fuoco? «Ci sono molti dettagli sulla morte di lei - osserva Guido Salvini, oggi avvocato di parte civile ma per una vita giudice a Milano - sulla fine di d'Alfonso invece il documento sorvola un po'». Ad ascoltare in aula c'è Bruno, il figlio del militare che non c'è più. Azzolini si rivolge a lui e prova a navigare dentro cinquant'anni di dolore e di assenza con due parole: «Mi dispiace».
La narrazione si concentra fatalmente sugli ultimi istanti di Mara Cagol che era pur sempre la moglie del capo e fondatore delle Br, Renato Curcio. I due terroristi provano a scappare, fra una sparatoria e l'altra, sulle rispettive auto. Ma la strada è sbarrata. «Uscito dalla mia vettura mi affiancai a Mara che era già sul prato. Notai che sanguinava da un braccio. Le chiesi se era ferita. Mi disse di sì ma che non era niente e, se c'era ancora l'occasione, di tentare di fuggire. Risposi che avevo ancora una srcm, (bomba a mano, ndr) Al suo cenno la lanciai e mi misi a correre verso il bosco convinto che Mara mi avrebbe seguito». Ma Mara non si muove. E l'ultimo fotogramma è quello di lei che implora di non sparare.
Alcuni particolari sono ancora da approfondire e non si capisce chi abbia sparato a d'Alfonso, ma la confessione apre squarci di verità. Anche se molti dei protagonisti non ci sono più, compreso Vallarino Gancia che fu liberato senza pagare una lira di riscatto. Ed è scomparso ormai novantenne nel 2022.
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