Brevetta il tacchino d'acciaio per far felice Michelle Obama

Titolare di una Srl fin da quando era minorenne, fa l'aiuto pasticciere ma studia per diventare medico pediatra: «Mi morì fra le braccia una sorellina di tre mesi»

«Mi chiamo Francesco Battagli. Ho compiuto 21 anni il 10 agosto. Studio medicina all'Università di Padova, dopo essermi diplomato a pieni voti al liceo classico Antonio Canova di Treviso. Vivo a Ponzano Veneto, un pugno di case dove, fino a ieri, non si capiva se il verde prevalente fosse quello dei campi o quello delle bandiere con il logo Benetton, solitarie sentinelle arrampicate sui capannoni. Sono nato a Motta di Livenza, ma non sono tutto veneto. Il mio babbo è toscano, di un altro pugno di case, Loro Ciuffenna, provincia di Arezzo. Lì, i campi si alzano in piedi. La mia bisnonna, Edi Grevi sposata Levi, ebrea, diceva che quelle terre in salita s'inchinano solo al pettine, che sarebbe poi l'aratro trascinato dalle chianine. Ora non più. Ora è tutto bosco. Ho una sorella di 15 anni, Margherita, che frequenta lo stesso ginnasio statale da cui sono uscito io, e un fratello di 9, Ettore, brillante ma pigro, come diciamo in famiglia, ha presente Peter Parker di Spiderman? Mia madre, Alessandra Montellato, è un'architetta, trevisana doc. Avendo avuto quattro figli - una, la piccola Viola, non c'è più - ha pensato che il migliore degli edifici fosse fare la mamma a tempo pieno. La fa benissimo, ispirata da quell'antica saggezza veneta tutta di terra e tutta di campagna. Mio padre Paolo è un designer, crea borse e gioielli per il mercato americano. Lui è un artista, di quelli veri. Per nulla saggio, molto poco di terra e ancor meno di campagna. Diciamo che la mamma e il babbo si compensano dall'età di 15 anni: anche loro liceo classico Antonio Canova di Treviso, incredibile».

Per una volta ho lasciato dire tutto al «tipo italiano», perché io, che pure vivo di parole, non avrei saputo raccontarlo meglio. Ma ora è il momento di aggiungere qualche dettaglio su cui l'interessato, dotato di un entusiasmo contagioso epperò schivo, magari sorvolerebbe. Pur provenendo da studi umanistici, Francesco ha superato il test d'ingresso alla facoltà di medicina gareggiando con ben 4.800 concorrenti e piazzandosi 48° su 450 ammessi. È da quando frequentava la terza media che sogna di fare il medico. Ha già in mente la specializzazione, pediatria, nonostante si senta portato anche per la neurochirurgia. Credo che intenda assolvere a una sorta di obbligo morale: Viola, la terzogenita di casa Battagli venuta al mondo nel 2003, visse per appena due mesi, dal 27 settembre al 27 novembre. Morì fra le sue braccia. All'epoca lui aveva 10 anni. Se lo ricorda come se fosse ieri. Un febbrone a 39 e l'anziano pediatra che tranquillizza i genitori: «Con i neonati succede». Quando Francesco la sollevò dalla culla per portarla alla mamma che stava nel salone, Viola aveva lo stesso colore del suo nome. Fulminata da una setticemia.

Francesco Battagli diventerà medico perché così gli detta il cuore. Però intanto lavora come aiuto pasticciere. Fin da quand'era minorenne, è imprenditore, titolare di una Srl per la quale hanno dovuto prestare le garanzie i genitori, uno zio e un paio di loro amici. Ha voluto chiamare la sua azienda B positive, come il proprio gruppo sanguigno, «ma anche perché nella pronuncia in inglese significa “sii positivo”».

Certo, solo un tipo estremamente ottimista poteva scrivere 37 raccomandate (26 euro l'una per la spedizione) al miliardario statunitense Warren Buffet, il terzo uomo più ricco del pianeta, proponendogli di entrare in società con lui. Alla trentasettesima missiva, l'arzillo vecchietto, soprannominato «l'oracolo di Omaha» per la sua diabolica abilità nell'azzeccare i business giusti, gli ha fatto rispondere dalla segretaria che l'idea era interessante ma che lui investe solo in aziende di grosse dimensioni. Analoga risposta dal colosso McDonald's e dalla titolare del pandoro Melegatti.

Credete che Francesco si sia demoralizzato? Ma neanche per sogno! In questi giorni s'è rivolto direttamente alla Casa Bianca, a Michelle Obama, per metterla al corrente dell'invenzione che rende possibile il sogno della first lady: far cessare la strage dei tacchini per il Thanksgiving day, il Giorno del ringraziamento. Il giovane ha infatti registrato il brevetto di uno stampo in alluminio - «il massimo sarebbe in oro» - che rende possibile la trasformazione del pennuto di carne in un soffice dindio, è così che in Veneto, fin dai tempi di Cristoforo Colombo, viene chiamato il grosso galliforme, antica memoria del fatto che le terre americane da cui fu importato erano ritenute le Indie. Un tacchino di farina, uova, burro e zucchero. Solo la cottura resta uguale: in forno.

Francesco ha battezzato Turcake la sua forma, intelligente ibridazione semantica di turkey (tacchino) e cake (torta). Il tacchino che diventa torta. S'è pure autoprodotto un simpatico video di 89 secondi visibile su Youtube (http://youtu.be/fqZ9RSbiJ00) che documenta la levataccia per recarsi in pasticceria con la sua Vespa e l'utilizzo dello stampo nella preparazione del monumentale dolce da 4 chili e mezzo.

Il filmato si chiude con «Registered No. 002074799-0001/0002». Che significa?

«È la patente federale statunitense. Il brevetto vale per Usa, Canada, Messico, Cina e per le cosiddette Tigri asiatiche, dalla Corea del Sud all'Indonesia».

Come c'è arrivato?

«Ho pensato che il tacchino che lei vede dal macellaio non è più figlio del copyright più antico dell'universo, quello del Padreterno, quanto frutto di una modificazione compiuta dall'uomo. Faccia conto che io sia il fornaio che cucinò per primo la pizza. Voglio vendere una forma a un popolo».

Ma com'è stato possibile brevettare uno stampo a forma di tacchino?

«Nessuno ci aveva pensato. Pareva strano anche a me. Poi ho capito che le idee semplici sono quelle che funzionano. Mi sono rivolto allo studio Modiano & partners di Milano, uno dei più importanti in Europa nel diritto della proprietà industriale. Mi hanno detto che ero stato davvero bravo a immaginare la fattibilità dell'impresa. Però il loro esperto, l'ingegner Bruno Cavasin, ha subito individuato il punto debole del brevetto: l'angolazione delle cosce».

Non credo d'aver capito.

«Sarebbe bastato che qualcuno creasse uno stampo in cui la posizione delle zampe del tacchino risultava leggermente più alta e addio idea!».

Quindi?

«Ho brevettato tutti gli angoli d'inclinazione delle cosce da zero a 80 gradi. M'è costato 17.000 euro. Altri 6.570 più Iva devo saldarli entro metà settembre».

Mamma mia.

«Non basta. Per la legge americana, qualsiasi sceriffo può rifiutarsi di riconoscere una Us patent. Mi è già capitato in due contee, nel Maine e nel Tennessee. Mi tocca depositare 5.000 dollari per ciascun ricorso. Per questo ho bisogno di un socio. L'ideale sarebbe il mio conterraneo Massimo Colomban, fondatore della Permasteelisa, l'imprenditore che ha rivestito il Guggenheim museum di Bilbao e la Sydney opera house in Australia. È il massimo esperto mondiale di alluminio. So che lei lo conosce. Non potrebbe metterci una buona parola?».

Ma i quattrini dove li ha trovati?

«Da quando avevo 16 anni, tutti i sabati e le domeniche lavoro come aiuto nella pasticceria di Stefano Netto a Villorba. Se va bene, sono 320 euro al mese. E poi do ripetizioni di latino e greco».

I conti non tornano.

«La bisnonna materna, Maria Tonon, classe 1922, mi ha sostenuto con 4.000 euro. I miei genitori ne hanno messi 30.000, mio zio Davide 8.000, io 4.000. La Regione Veneto mi ha erogato un piccolo contributo: 4.500 euro. Invece Edi, la mia bisnonna ebrea, non ha fatto in tempo: è morta quest'anno. Però m'incoraggiava. “Sarai anche un leone veneto”, mi diceva, “ma ricorda che le tue ali punteranno sempre verso la Palestina”».

Ah, ecco, c'entra la pertinacia israelitica.

«In suo onore a 16 anni avevo cominciato a imparare l'ebraico per conto mio, come Giacomo Leopardi, che aveva studiato l'aramaico. Mi sono arreso: troppo difficile. Ho ripiegato sul primo libro dell' Odissea. In 20 giorni passati d'estate a Cima Sappada, ho tradotto in prosa i 440 versi di Omero. Tutto merito del mio amatissimo professore di lettere al liceo, Fabrizio Schiavon. Mi ha insegnato la curiosità. Senza di lui, sarei finito calciatore nel Ponzano o nel Conegliano, squadre nelle quali peraltro ho giocato».

Che cosa le fa pensare che agli americani interessi il suo brevetto?

«Il Thanksgiving day è una festa molto sentita. Si celebra il quarto giovedì di novembre. Fa molto freddo. Una volta sbarcai a New York che il termometro segnava meno 22. Le famiglie stanno bene in casa, radunate attorno a questo feticcio: il tacchino. Merito dei Padri pellegrini fuggiti dall'Inghilterra, dov'erano perseguitati, e approdati nel Nuovo Mondo a bordo della Mayflower nel 1621. Sarebbero morti tutti di fame se i nativi americani non gli avessero insegnato ad allevare i tacchini e a coltivare il granoturco. Di qui il Giorno del ringraziamento, istituito da Abramo Lincoln nel 1863. Ogni anno vengono macellati per la ricorrenza 50 milioni di tacchini. Pare che lo stesso Lincoln abbia concesso la prima grazia, il president pardon, al tacchino già pronto da cucinare in forno. Altri sostengono che fu Harry Truman nel 1947 a evitare il sacrificio nelle cucine della Casa Bianca. Michelle Obama, rompendo una tradizione secolare, ha chiesto al marito Barack di graziare entrambi i tacchini destinati alla loro mensa, invitando i compatrioti a fare altrettanto. Paul McCartney, Tom Cruise, Brad Pitt e Angelina Jolie si sono associati. Rinunciare al tacchino arrosto è una moda».

Anche lei è un animalista?

«Solo per ragioni di salute. Da otto mesi ho eliminato la carne rossa e i formaggi e sostituito il latte di mucca con quello di soia. Immagini la disperazione di mio padre quando porta dalla Toscana le bistecche di chianina alte quattro dita».

E mangia il tacchino di panettone.

«O di pasta sfoglia con ripieno di riso al curry, o vegetariano, o con il tofu. Si può mettere quello che più piace, nel mio stampo. Ho scritto all'American bakery association, che raggruppa 57.000 fornai, per proporre il pane a forma di tacchino. Stavo anche pensando a un uovo di alluminio da mettere nell'impasto: la lotteria nazionale potrebbe nasconderci il numero vincente per un'estrazione milionaria, lei che ne dice?».

Le consiglio entro sera spugnature alla calotta cranica con acqua gelida.

«Ho messo in produzione 30.000 pezzi in tre diverse forme: mini per i bimbi, 250 grammi; media per le coppie di fatto, 1,5 chili; grande per i nuclei familiari allargati, 4,5 chili. Me le produce Pasquale Esposito di Pomigliano d'Arco».

Quanto spera di ricavarci?

«Conto di piazzare la matrioska di stampi nei grandi empori di casalinghi, come Crate and Barrel, o nei superstore, tipo Macy's e Costco. A 29 dollari per tutt'e tre. Oltre, non te la comprerebbero».

La sento molto sicuro di sé.

«Mio padre è spesso negli Usa per lavoro. Ci sono andato con lui almeno una decina di volte e mi sono fatto un'idea di come funzionano le cose. Dovendo stare là un mese, mi mandò a fare il dog sitter in un'impresa guatemalteca. In pratica portavo i cani dei ricchi a Central Park per i loro bisognini e li riconsegnavo».

C'è voluta una bella inventiva per mettere in moto questo ambaradan.

«Ho preso da mio padre. Nel 1997 brevettò il cammellino, la bici a una sola ruota che si attacca al canotto della sella del genitore. La ditta Bianchi gli disse: “Non ne venderà neanche uno”. Ne ha smerciati 10.000 l'anno per una decina d'anni».

Ma le avanza del tempo per vivere?

«Non sono un asociale, se è questo che intende. Ma ho interessi non propriamente in linea con quelli dei miei coetanei che d'estate svaccanzano a Jesolo, ballando fino alle 5 del mattino e alzandosi dal letto alle 2 del pomeriggio. Non bevo, non fumo, non sono mai entrato in un dancing e mi riesce difficile reggere, com'è capitato ieri sera, una disquisizione sul Latte di suocera, liquore d'erbe che fa 75 gradi. Per me è benzina, ci pulisci il pavimento».

La fidanzata ce l'ha?

«Sì, Beatrice, da oltre due anni. Siamo antitetici, quindi il rapporto funziona. Mentre io ero a Cima Sappada, lei andava in discoteca con le amiche. Sono state le sue vacanze, diciamo».

Resterà in Italia quando avrà avuto successo o sarà diventato medico?

«No, sogno di trasferirmi negli Stati Uniti per sempre. Badi bene, amo la terra in cui sono nato. Ma non posso vivere in un Paese che non sa offrire a tutti, anche ai più sfortunati, almeno una possibilità».

(717. Continua)

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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