«Che carina, ti ricordi ancora di me»: Lea Pericoli era sugli spalti di una partita di Coppa Davis e una bambina le stava offrendo una penna per avere il suo autografo. Non c'era altro che gentilezza ed eleganza nelle sue parole, perché così era la Divina del nostro tennis che - pur vivendo l'ultima parte della sua vita da monumento - non ha mai dimenticato se stessa. Lea ci ha lasciati a 89 anni, ed anche se ormai era tempo che non ci si incontrava ai bordi del circuito, certe notizie ti aggrediscono con tristezza, quella che prova il tennis italiano ma pure questo giornale che l'ha vista per anni protagonista con la penna. Fu un'invenzione di Indro Montanelli la Lea Pericoli giornalista (anche di moda), e il suo stile - sulla carta ed poi al microfono (memorabile pure il suo Paroliamo ai tempi di Telemontecarlo) era sempre quello di essere garbata con tutti, anche con i lettori. Non che Lea non sapesse dire le parolacce, anzi (i primi computer la facevano disperare): però nulla era mai fuori posto.
Nata ad Addis Abeba e con una prima gioventù in Kenya, imparò presto a tenere la racchetta in mano grazie alla passione del padre imprenditore, finito in un campo di concentramento ad Asmara e poi graziato da Hailé Selassié: «È uno uno sport che insegna per diventare campione devi combattere una battaglia continua». In Etiopia era l'unica bimba tennista, a Nairobi frequentando un college britannico trovò le prime avversarie e le prime vittorie, «e d'altronde quando sopravvivi alla savana e a una scuola di suore, nulla ti fa più paura». Infatti, a 17 anni, tornata in Italia cominciò la strada verso il successo, guidata in Versilia dal padre di Paolo Bertolucci.
Lea era garbata, sì, tranne che quando rincorreva una pallina, e quindi di battaglie alla fine ne ha perse poche. Si contano 27 titoli italiani, in una carriera chiusa nel 1975 vincendo ai campionati nazionali singolare, doppio (con Lucia Bassi) e doppio misto (con Adriano Panatta). Insomma: come fanno le leggende. E in tutto questo tempo da numero uno italiana 14 anni, un record - divenne anche un'icona fuori dai confini, con il top degli ottavi nel singolare degli Slam e di due semifinali in doppio. La sua immagine però resta legata a Wimbledon, dove i gonnellini firmati dallo stilista Ted Tinling fecero scandalo e meraviglia allo stesso tempo. La prima volta, anno 1955, scese in campo armata di coulotte e sottoveste rosa, tanto che il padre non le parlò per un anno: «Scostumata! Vai a lavorare!». Finita la sfuriata, però, Lea non si perse d'animo, regalando al tennis uno stile pieno di fiocchi e diamanti che ancora oggi si può vedere in mostra al Victoria&Albert Museum di Londra: «Per le mie mutande di pizzo rischiai la squalifica, ma ne è valsa la pena». Era una donna da jet set, vissuto tramite l'amicizia con Ranieri di Monaco e visto dalla sua casa di Monte Carlo. E non voleva mai perdere: ha rinunciato al golf appena si è accorta di poter più competere.
Così, dunque, ha affrontato le altre battaglie della vita, vinte con il sorriso per dare coraggio a chi provava vergogna di essere malato. La prima è contro un carcinoma all'utero nel 1973: «Mi vedevano pallida, scioccai tutti dicendo: ho un tumore! Il professor Veronesi ne approfittò per trasformarmi testimonial della prevenzione». Poi arrivò quello al seno nel 2012, sconfitto con lo stesso stile di raccontare tutto con leggerezza: «Il cancro è come il tennis: preferisci che la gente tifi per te». Sottile e ironica, come quando parlava delle lunghe trasferte australiane in mercantile con i colleghi tennisti di allora, e pure dell'amicizia interminabile con Nicola Pietrangeli, messa nero su bianco in un libro: «Nessuno ci crede, ma tra noi non è mai successo niente: accanto a me avevo sempre qualcuno, accanto a lui ce n'erano sempre due. Ci siamo sempre voluti tanto bene».
L'ultimo incontro fu qualche anno fa, fu al Foro Italiano: «Che carino che sei, ti ricordi sempre di me. Come va al Giornale?». L'ultimissimo invece fu una sliding door che ci mancò di poco, quei momenti tra la salita e la discesa da un tram di Milano che lasciano il rimpianto di non esserci salutati. L'immagine di Lea è di lei che chiede un'informazione a un passante e poi scompare con la solita gentilezza.
Un po' come ha fatto ieri, al termine dell'ultima battaglia che in fondo non ha perso neanche questa volta: «Amo la vita pazzamente - diceva -, il giorno che me ne andrò mi dispiacerà. Il tennis mi ha dato tutto, tranne i soldi». Che carina Lea, continueremo a ricordarci di te.
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