«Il vero, grande tabù informativo è la 'ndrangheta a Milano. Non per i magistrati, anzi la Procura con il pm Alessandra Dolci ha sferrato colpi non da poco, ma per i giornali. Intanto monopolizza il settore della sicurezza nel Quadrilatero». Il massmediologo Klaus Davi ha appena finito una puntata di Fatti e Misfatti che va in onda alle 13.30 su Tgcom (canale 51 del digitale terrestre) che riguarda l'inchiesta sui brogli a Reggio Calabria. La 'ndrangheta in questo caso non c'entra, ma mai dire mai. «Intanto se ne parla su Mediaset, è un tema delicatissimo ma grazie a Paolo Liguori ho avuto e ho massima libertà editoriale, anche su argomenti così spinosi...»
Di cui frega poco a tanti...
«È vero. Fatta eccezione per Report, ogni tanto se ne occupa il Tg3 e poi? Alla sonnolenza dei grandi giornali si somma anche quella dello Stato. La 'ndrangheta è un'emergenza sociale ma lo Stato non vuole che lo si dica».
A che cosa ti riferisci?
«Intanto ai brogli. Quando ho deciso di correre da sindaco a Reggio alla classica battaglia contro i mulini a vento. Invece è stata battaglia vera. E la sera stessa del voto ho denunciato strani episodi ad urne aperte, sfidando il silenzio elettorale. Voti venduti a 100 euro, sgherri dei partiti davanti ai seggi, 60 voti alla mia lista mancati in una notte che non hanno fatto scattare il seggio (che sul sito del Viminale era stato assegnato), penso al sindaco Pd Giuseppe Falcomatà che dice al presidente della commissione elettorale sei una garanzia. Tutto sapeva di tarocco. Poi è scoppiata l'inchiesta sul mercato di tessere elettorali messo in piedi dal consigliere Pd Antonino Castorina. Tutto l'insieme della vicenda è ancora oscuro».
Castorina si dice innocente...
«Ma negli interrogatori è rimasto in silenzio. Ma come, la sinistra che ha costruito la sua narrazione sulla questione morale? E ci troviamo un esponente del Pd nazionale e un segretario comunale che fanno scena muta? È inquietante. Chi devono tutelare? Questa è la domanda. Nell'assenza totale di prefettura e Viminale».
Voto da rifare?
«Altri comuni calabresi come Africo sono stati sciolti per fatti meno gravi. Se non fosse stato per me un appalto pubblico sarebbe finito a un ristoratore che per i pm è vicino al clan De Stefano».
E la politica?
«Se ne frega, non fa nulla per rendere visibile il fenomeno tranne i comunicati di circostanza in occasioni degli arresti. Hanno tanto criticato il governo Berlusconi ma l'ex procuratore capo di Reggio e Roma Giuseppe Pignatone ammise che fu il suo governo a fare una tra le leggi più utili».
Nel tuo libro I killer di 'ndrangheta (Piemme editore) hai raccontato la 'ndrangheta più feroce. È vero che hai fatto luce su un cold case?
«Dopo 13 anni in cui un caso era finito nel dimenticatoio ho anticipato i possibili mandanti e il killer del boss Nino Gullì, ucciso nel 2008. Dopo un anno di lavoro certosino la Procura di Reggio Calabria guidata da Giovanni Bombardieri ha sostanzialmente confermato quanto avevo scritto, cristallizzandolo in un verbale. Vuol dire che ho lavorato bene, no? Nel 2015 mi sono occupato dell'ex killer di 'ndrangheta Gino Molinetti, che non era neanche sorvegliato. L'anno scorso si è scoperto che aveva creato un suo clan, a me mi aveva denunciato per stalking. Sto indagando sui legami tra i De Stefano e i Fontana di Cosa nostra, clan sui cui è già aperta un'inchiesta».
Chi comanda a Milano?
«In Lombardia c'è un sincretismo mafioso tra mafia calabrese, Cosa nostra o e i pugliesi. A Milano città comanda la 'ndrangheta».
Sogno nel cassetto?
«Mi piacerebbe proporre a Mediaset un format sui grandi temi della criminalità organizzata ma con un taglio pop, non palloso».
Cosa manca alla narrazione del
fenomeno?«C'è una sconcertante incapacità di raccontarlo. Si sono inventati che per la privacy non devono più diffondere le foto dei boss . Arrivano filmato striminziti. Ma come pensano di sensibilizzare le persone?».
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