Non far passare lo ius soli in Italia è stato «un atto di paura, crudele e miope». A parlare così qualche anno fa era proprio Enrico Letta e ce l'aveva proprio con il centrosinistra allora al governo con il premier Paolo Gentiloni. Lo ius soli infatti non è un nuovo slogan del Pd, anzi è almeno una decina di anni che i dem ne parlano come di una priorità assoluta, un traguardo imprescindibile, un «segno di civiltà» come lo definì nel 2009 David Sassoli, oggi presidente del Parlamento Ue. La cittadinanza automatica ai figli degli immigrati è un vecchio cavallo di battaglia della sinistra italiana, un tormentone che di tanto in tanto ritorna in auge, ma che non si è mai tradotto in legge anche se il Pd, dal 2013 ad oggi, cioè dal premier Letta al premier Conte bis passando dai premier Renzi e Gentiloni, ha di fatto sempre governato, se si eccettua l'anno del governo gialloverde. Ma in quattro governi targati Pd, il Pd non è mai riuscito a portare a casa lo ius soli, che invece è rimasto un argomento da dibattito politico ricorrente. Letta ci aveva provato, nominando una ministra ad hoc per l'Integrazione, la dimenticabile Cecile Kyenge, che appena nominata chiarì quale fosse la sua agenda ministeriale: «Quella dello ius soli è una delle mie prime priorità, poi ci sono tante cose che dovranno cambiare ma questa rimane comunque una priorità al di sopra di tutto». Il problema è che il tema della cittadinanza agli immigrati è uno di quelli che dividono ogni maggioranza, e anche quella dell'allora premier Letta non fece differenza. Insieme al Pd, come costola piccola ma indispensabile nei fragili equilibri di maggioranza, c'era il partitino di Angelino Alfano, che almeno nel nome era di centrodestra, e quindi lo ius soli non poteva digerirlo troppo facilmente. Tanto che il tema agitò il governo per mesi, finchè Letta non proclamò che lo avrebbe messo nel nuovo contratto di governo da siglare tra le forze di maggioranza all'inizio del 2014. Cioè proprio quando Letta fu invitato da Napolitano a tornarsene a casa per fare spazio allo scalpitante Matteo Renzi, nuovo premier, sempre Pd. E sempre convinto della fondamentale importanza dello ius soli, che anche sotto il nuovo governo tornò ad aleggiare come riforma urgente ma sempre rinviata.
E così infatti, tra infiniti dibattiti e polemiche, fu rinviato e rimpallato al successivo esecutivo, quello di Paolo Gentiloni, sempre Pd e anche lui convinto dell'assoluta necessità dello ius soli. È stato quello il momento in cui il Pd è arrivato più vicino a passare dalle parole ai fatti, ma fermandosi ancora una volta prima del traguardo. Il testo di riforma della cittadinanza, calendarizzato in Senato, finì con l'essere rinviato per non turbare la maggioranza che comprendeva anche i centristi, contrari allo Ius soli, in prossimità di un voto importante sul Def in cui serviva anche il loro appoggio. Quindi, per l'ennesima volta, nulla di fatto, così come con Conte. Ma anche nel governo Draghi non sembrano esserci le condizioni, visto che in maggioranza c'è anche il centrodestra. Che, oltre a quello scontato della Lega, contempla anche il no di Forza Italia: «Sono tante le emergenze causate dal Covid. Certamente tra queste non ci sentiamo di annoverare lo ius soli o il voto ai sedicenni» dice il capogruppo azzurro Roberto Occhiuto.
E il M5s? Non lo ha mai appoggiato, Grillo lo definì «un pastrocchio invotabile», Di Maio «uno strumento di propaganda» del Pd. Ma si sa che i grillini possono cambiare idea su tutto se serve per mantenere stipendio e privilegi.
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