Con il passo di lato di Matteo Renzi («Non importa chi andrà a Palazzo Chigi, basta che sia del Pd. Siamo una squadra») salgono le quotazioni di Carlo Calenda, il ministro pariolino-montezemolino che non è iscritto al Pd, non sarà candidato nelle liste del Pd, giura che «il nostro premier e centravanti di sfondamento è il segretario Pd», ma da mesi tesse la tela e già parla e dà la linea politica come un potenziale premier in quota Pd («Nessuna passione se non quella per il potere» racconta il ritratto che gli fece il Foglio). Al Teatro Parenti di Milano per lanciare la corsa al Pirellone di Giorgio Gori, l'applausometro premia proprio lui, accolto da un boato e più volte interrotto dagli applausi della sala piddina (il partito conta 1500 persone presenti), più del sindaco Sala, più del candidato governatore Gori, più dello stesso leader Matteo Renzi. Tra i due c'è una rivalità neppure nascosta, anzi esibita come prova di forza (l'ultima lite sull'abolizione del canone Rai, la penultima sul Pd come «circolo chiuso dove se dici a Renzi che sbaglia diventi suo nemico»). «Calenda su di me aveva un pregiudizio, perché pensava che fossi solo un rottamatore - dice Renzi - E anche io avevo su di lui un pregiudizio. Pensavo che fosse un fighetto di Confindustria. Io e Calenda e litigavamo anche prima, solo che prima le cose me le diceva via sms, adesso ha scoperto Twitter, te lo togliamo questo Twitter!». La battuta è preceduta dalla frecciatina, più di una, di Calenda, che Renzi ascolta battendo le mani e muovendo nervosamente il piede.
Il ministro gli rinfaccia la retorica della rottamazione («Matteo noi non siamo rottamatori, ma grandi costruttori») e poi il fallimento della campagna sul referendum costituzionale troppo puntata sull'abolizione del Senato e sulla propaganda filo-grillina delle poltrone da tagliare: «La riforma è una battaglia per la governance e per la sicurezza nazionale, non per abolire sedie di cui non frega a nessuno» è il siluro di Calenda a Renzi che incassa e poi gli risponde per le rime. «Se non ci fosse stata la rottamazione, il ceto politico sarebbe lo stesso di allora. C'è un disegno politico che vuole la restauazione di quelli che c'erano prima», il riferimento è la sinistra di Bersani, D'Alema e Grasso.
Altra stoccata del ministro all'indirizzo del segretario, quando Calenda tocca un tasto molto sensibile per il Giglio magico, i rapporti con banche, finanza ed élite. Cita il mondo dell'«eccellenza» made in Italy, delle grandi imprese che fanno il Pil italiano, ma bacchetta il renzismo perchè «non dobbiamo dare per un secondo l'idea che questo sia il nostro unico mondo di riferimento, nessun paese è fatto solo di vincitori ma anche di gente che perde e va recuperata». Una bella botta al Renzi premier che amava fare i selfie con gli italiani vincenti ma evitava di mettere la faccia sulle pagine negative. Infine Calenda avverte che il Pd (di cui formalmente non fa neppure parte) non può pensare a larghe coalizioni con Berlusconi, «qualunque strada ci sarà dopo il 4 di marzo non ha niente a che vedere con quelle ricette».
Tre giorni fa aveva firmato sul Sole24Ore un «piano industriale per l'Italia delle competenze», ritwittato dal premier Gentiloni e lodato dal ministro Padoan. Un segnale dell'appoggio di cui Calenda gode nell'ala governativa come alternativa a Renzi. E anche gli altri ministri si smarcano dal segretario.
Padoan ammette che il Jobs act renziano si potrebbe «aggiustare», il suo rapporto con Renzi «si è diradato», e include «divertenti» scontri di vedute, «come sugli 80 euro». La corrente dei ministri (da Gentiloni a Calenda) prende peso, persino Renzi ha preso atto che il futuro centravanti Pd potrebbe anche non essere lui, ma uno di loro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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