In questi ultimi quattro anni non c’è stata una leader del centrodestra più rispettata dai media di Giorgia Meloni. È stata ospite frequente nei talk show della Rai, di Sky e di La7, oltre a Mediaset. È stata intervistata, con molto rispetto e ampio spazio dedicatole, dal Corriere della Sera. Ha ottenuto molta più visibilità rispetto a quella solitamente riservata ad una leader di un partito di opposizione, con il 6% dei seggi parlamentari. Ora la musica è cambiata, repentinamente. Come sempre, viene citata per prima la stampa (di sinistra) straniera, in questo caso il New York Times e il Guardian, che esprimono preoccupazioni per il destino di un’Italia nelle mani della leader di destra, se dovesse vincere le elezioni del 25 settembre. La Repubblica, il giornale-partito appena orfano del suo fondatore Scalfari, titola sull’“Ombra nera” di cui Giorgia Meloni non riuscirebbe a liberarsi, il passato che non passa che, ovviamente, si riferisce al nero del fascismo. Il trattamento di riguardo riservato alla leader di Fratelli d’Italia non è un’allucinazione. Altrimenti non si spiegherebbe perché le feste annuali Atreju fossero così ben frequentate da personalità politiche e culturali di sinistra. Sul palco del festival che prende il nome dal protagonista della Storia Infinita, abbiamo infatti visto dal vivo Enrico Letta, Fausto Bertinotti, Graziano Delrio, Matteo Renzi e Giuseppe Conte, oltre ai ministri Luigi di Maio, Roberto Cingolani e Marta Cartabia. Anche personalità del mondo del giornalismo, dello sport e dello spettacolo non hanno declinato l’invito.
L’editorialista del Corriere della Sera Federico Rampini (ex La Repubblica), l’allenatore della nazionale campione d’Europa Roberto Mancini, il presidente del Coni Giovanni Malagò, la campionessa olimpica Antonella Palmisano, la scrittrice Paola Mastrocola, il sociologo Luca Ricolfi, la stilista Elisabetta Franchi, si sono tutti fatti vedere e fotografare sotto le insegne del partito su cui ora aleggerebbe ancora l’Ombra nera. Se ci fossero stati dubbi di legittimità, se fosse partita allora la macchina del fango che vediamo adesso, quanti di loro (pensiamo soprattutto ai politici) ci sarebbero andati? In questo inizio di campagna elettorale, la cantante Elodie si sente in dovere di dichiarare che “il suo programma elettorale fa paura”. Quale? Per ora esistono solo le bozze, l’ultimo programma risale al 2018. Attendiamo di sapere, da qui ai prossimi due mesi, cosa ne penseranno anche attori, registi, scrittori. Enrico Letta pone l’ultimatum all’elettorato: “Le elezioni un bivio: l’Italia scelga noi o Meloni”, dichiara alla Repubblica, dopo aver dismesso i panni del dialogante (ospite di Atreju, ricordiamolo ancora). Parrebbe una scelta di sistema, senza compromessi, come quella del 1948. Ma allora perché, fino all’inizio di questa campagna elettorale, Giorgia Meloni era una scelta socialmente tollerata, mentre ora è socialmente squalificante? Perché prima non era un pericolo per la democrazia, mentre ora è allarme fascismo? La risposta la possiamo trovare nel rapporto fra i media e gli esponenti del centrodestra italiano, negli ultimi venti anni. È infatti dal 2001, circa, che i media danno spazio e corteggiano gli esponenti di minoranza del centrodestra, solo se sono in dissenso con il leader principale. A questa strategia aveva dato il via Massimo D’Alema, all’indomani della caduta del governo Berlusconi nel 1994 (a seguito dell’uscita della Lega Nord di Umberto Bossi), quando definiva il popolo leghista una “costola della sinistra”.
Per di più con il merito di aver fatto cadere il primo governo veramente alternativo alla sinistra. Questa tattica è diventata sistema nel corso del successivo governo Berlusconi (2001- 2005), quando Gianfranco Fini, Marco Follini e Pierferdinando Casini hanno ottenuto uno spazio e una visibilità incredibilmente sproporzionate rispetto alla loro pattuglia parlamentare. Su Follini, vicepresidente del Consiglio del governo Berlusconi si ricordano servizi in cui veniva descritto come un vero politico “di razza”, di gran classe democristiana (“passa i fogli degli appunti al suo assistente, man mano che li legge”), futuro leader di una destra “presentabile”. Chi è nato dopo il 2000, probabilmente, non lo conosce nemmeno, se non come editorialista dell’Espresso: ha lasciato la politica attiva da un decennio, dopo una breve esperienza nel Partito Democratico. Il periodo 2008-2011, per un osservatore straniero che non conosce l’Italia, è stato il triennio di Gianfranco Fini, anche se al governo il premier era sempre Silvio Berlusconi. Non c’era trasmissione, quotidiano, rivista, festival, occasione mondana, in cui Fini non fosse ospite. Sia lui in persona che i fondatori e membri della Fondazione Fare Futuro, presentata come fucina di idee della “buona destra” o “destra presentabile”. È significativo che la scissione di Fini e dei parlamentari a lui fedeli dal PdL non abbia neppure determinato il venir meno della maggioranza parlamentare. Attualmente di Fini si sente parlare poco o nulla, è scomparso dai radar della cronaca politica. Con Giorgia Meloni è diverso: da leader minoritaria nel centro-destra è diventata la più papabile fra i premier, con i sondaggi che danno il suo partito stabilmente oltre il 20% dei consensi. I media l’hanno trattata come Follini e come Fini, dandole la stessa visibilità, quando il leader di destra era Matteo Salvini e lei era all’opposizione, per tutti e quattro gli anni di questa legislatura senza maggioranza.
Ma adesso i rapporti di forza sono mutati, Giorgia potrebbe diventare premier, quindi: allarmi è fascista! Nota di metodo: si parla di “media” come fossero un’entità politica coesa di sinistra. Ufficialmente non lo sono. Ma questi comportamenti dimostrano che lo siano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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